12 agosto 2025
Aggiornato 17:00
Morte Paolo Villaggio

Paolo Villaggio e il mito di Fantozzi, il resiliente che mise in ridicolo la classe media occidentale (conquistando la Russia)

Negli anni delle Brigate Rosse, del terrorismo politico e di Stato - nel tempo in cui un giorno sì e uno pure veniva invocata l’ombra della resistenza - Villaggio disse che resistere è un’inutile perdita di energia e di tempo.

ROMA - Gli appassionati di ciclismo sanno che, puntuale, ad ogni Giro d’Italia sulle rampe più dure delle tappe di montagna alza le tende un insieme di uomini e donne che festeggiano in maniera rumorosa, simpatica e alcolica: il mitico «Gruppo Filini sempre presente!». Durante l’ultimo Giro d’Italia erano presenti sulla salita di Oropa, intenti a grigliare, e bere, con la nota efficienza e solerzia. E cosa dire dei seguaci della Coppa Cobram, imperitura gara ciclistica inventata dalla penna di Paolo Villaggio per far felice il mega direttore che schiavizzava un branco di impiegati scansafatiche? Una delle scene più surreali della cinematrografia è però diventata realtà: la Coppa Cobran esiste ed è giunta alla sedicesima edizione. Come nel caso del «Gruppo Filini sempre presente!», l’epica costruita da Villaggio si è incarnata nell’Italia che conta, quella popolare.

Resilienza contro resistenza
Paolo Villaggio ha sdoganato, magari senza manco saperlo, la cultura della «resilienza» in Italia, ovvero quel moto dell’anima diventato di gran tendenza in tempi recenti: un sottile crinale che unisce la resistenza e il fatalismo. Negli anni delle Brigate Rosse, del terrorismo politico e di Stato – nel tempo inc cui un giorno sì e uno pure veniva invocata l’ombra della «resistenza» - Villaggio disse che resistere è un’inutile perdita di energia e di tempo. In questo assomigliava allo scandalo letterario per eccellenza del ‘900, Louis Ferdinand Céline, senza però raggiungere quegli eccessi. Ma il nichilismo céliniano di cui è pervaso il ragionier «Fantocci», e il suo mondo, è veramente un "viaggio al termine della notte». Di cui, incredibilmente e qui risiede il genio prima letterario e poi cinematografico, si poteva, anzi si doveva, ridere. Il mondo fa schifo, facciamoci un risata che tanto mica cambia. Questa è l’incarnazione della pedagogia della resilienza, che trova spunto proprio negli anni Settanta – in particolare grazie agli studi di Gregory Bateson inerenti l’ecologia della mente – ovvero quando Paolo Villaggio inventò il ragionier Fantozzi, esempio di uomo sfortunato, mediocre, vagamente ignorante, ma dotato di una capacità di incassare degna di Rocky Balboa: tanto per rimanere nel solco della cinematografia popolare di quegli anni. Incassare, piegarsi, subire, sempre: che tanto la vita va avanti, e tra il ricco e il povero, il bifolco e professore, l’impiegato e il mega direttore, nulla cambia. La vita è sempre miserabile, punteggiata ogni tanto da qualche momento di felicità, come per altro diceva pure il mostro sacro Italo Calvino.

Ugo contro Akakji? Meglio Ugo
Nel suo libro «Fantozzi», da cui gemmeranno ben dieci film di variegato spessore – alcuni da dimenticare – il ragionier Ugo Fantozzi sembra il lontano discendente di Akakij Akakievic, impiegatuccio della Russia zarista, piccolo tapino ossessionato dalla sua microscopica vita, nella quale, improvvisamente piomba la tragedia de «Il Cappotto». Villaggio, che vinse molti premi letterari in Russia, mentre in Italia è ricordato prettamente per i suoi film che dovevano far piangere ma che invece provocarono, e provocano ancora, grasse risate, nella Russia sovietica divenne un autore famosissimo e apprezzato dall’arcigna critica. Ovviamente per motivi ideologici, perché il buon Fantozzi raccontava il degrado umano della società occidentale con le sue micragnose vite senza speranza. In particolare della classe impiegatizia, al tempo contrapposta alla egemonica classe operaia. Gli impiegati, quell’oscuro mondo che troverà spazio solo dopo la "marcia dei quarantamila" a Torino: chi erano costoro? Ci pensò Ugo Fantozzi e raccontare quel mondo, che spazzò via le velleità insurrezionali del’operaismo. Quindi, ai comunisti dell’Urss ovviamente non pareva vero poter dire: ecco, vedete quanto è ridicola la classe media occidentale? Ma, questa è solo un parte: perché poi c’è l’aspetto culturale letterario, e qui la patria che fu di Dostoevskij checché ne dicesse il dissidente Sol¸enicyn premiava solo quelli che sapevano scrivere sul serio. E infatti Villaggio divenne un piccolo Gogol, e il suo Fantozzi un gigantesco Akakij Akakievic. «Il cappotto» fa parte de I racconti di Pietroburgo, pubblicati nel 1842. In breve, la trama: il funzionario Akakij Akakievic è preso in giro dai colleghi ed escluso dalla vita sociale della Pietroburgo perché povero e tapino, si trova in difficoltà nel momento in cui è costretto a comprarsi un nuovo cappotto dato che il vecchio è ormai totalmente consunto dal tempo e dalle intemperie. Dopo una vita fatta di rinunce e risparmi feroci decide di farne confezionare uno al sarto Petrovič. L'arrivo del nuovo indumento rappresenta per Akakij un evento estremamente importante, una gioia che rompe l'assoluta ripetitività di un'esistenza dedicata al proprio lavoro, tanto che, appena mostrato il vestito al ministero, Akakij Akakievič pare guadagnare il rispetto di quei colleghi e di quei superiori che prima lo infastidivano quasi ferocemente. Anzi addirittura i suoi colleghi arrivano a organizzare una festa per il suo nuovo cappotto. La gioia è di brevissima durata e il dramma dietro l'angolo. Mentre rincasa dalla serata coi suoi colleghi di lavoro, il protagonista viene derubato del cappotto. Annichilito dall'episodio, Akakij Akakievič cerca invano giustizia in ridicole figure di superiori, onde morire poco dopo di freddo, distrutto dalla perdita dell'oggetto.

Villaggio contro Gogol? Meglio Villaggio
Gli echi gogoliani in Fantozzi sono evidentemente presenti. Ma, a differenza del gigante russo, Villaggio introduce la resilienza: forse il primo con portata planetaria. Gogol fa morire il povero impiegato, mentre il povero Fantozzi resiste; anche se privo di volontà, sbeffeggiato, umiliato, circondato da un panorama umano nullo. Non solo: il mondo dove vive Fantozzi è urbano: città grigie, cavalcavia orrendi, autobus ricolmi di folla, spiagge coperte di rifiuti e topi, campetti di periferia fangosi, automobili oscene. Villaggio, con Fantozzi, non salva nulla: né l’uomo, né l’ambiente. Ma, a differenza di Gogol, Villaggio fa sopravvivere a tutto questo Fantozzi.
Come un’alga che si trova sul greto di un torrente, resiste silente al disseccamento estivo come alla furia delle alluvioni. E, alla fine di ogni evento – la cui intensità è ininfluente – l’alga, come Fantozzi, è sempre lì. Attaccato alla vita, anche se questa fa schifo. Ogni tanto ecco un piccolo scatto di orgoglio, ma anche in esso è la deriva nichilista che spadroneggia. Come nel caso della celeberrima «Corazzata Potemkin cagata pazzesca»: il film di Eisenstein è un capolavoro e la sfuriata di Fantozzi è un inno all’ignoranza, la sostituzione della cultura classica con quella pop-trash. Più d’uno sostiene che quell’urlo di guerra, con Guidobaldo Maria Ricciarelli lapidato sui ceci dagli insorti, sia la giusta ribellione verso la cultura radical chic. Ma, calendario alla mano, la peste del radical chicchismo nasce solo negli anni Novanta, come moto di resistenza della gauche caviar assediata dal drive in. Se ne va Villaggio, lo rimpiangeremo. Ma che cosa di lui maggiormente? Probabilmente, più di tutto, la sua voglia di ribellione, seppur nichilista. Poteva non piacere, e a molti faceva questo effetto, ma Villaggio scrisse e disse che ci si poteva ribellare alla dittatura del presente: prendendolo in giro, demolendo con l’umiliazione incessante dello stato delle cose.