3 maggio 2024
Aggiornato 11:30
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Più di una startup su due chiude dopo i primi 5 anni

La fotografia è stata scattata dall’Ufficio studi della CGIA di Mestre. Più di una startup su due (il 55,2%) muore dopo i primi 5 anni di vita. Un dato allarmante che non dà segni di ripresa, anzi volge al peggioramento

Più di una startup su due chiude dopo i primi 5 anni
Più di una startup su due chiude dopo i primi 5 anni Foto: Shutterstock

MESTRE - A far gettare la spugna anzitempo sono le solite tasse, le lungaggini burocratiche e (è banale dirlo purtroppo) la mancanza di liquidità. Draghi e mostri contro cui le startup italiane combattono ogni giorno e che solo la metà riesce davvero a sconfiggere. Più di una startup su due (il 55,2%) muore dopo i primi 5 anni di vita. Un dato allarmante che non dà segni di ripresa, anzi volge al peggioramento. Le aziende italiane soffrono, soprattutto quelle guidate da neo imprenditori. La fotografia è stata scattata dall’Ufficio studi della CGIA di Mestre.

Metà delle startup chiude dopo 5 anni
«E’ vero che molte persone, soprattutto giovani, tentano la via dell’autoimpresa senza avere alcuna esperienza e/o il know how necessario - ha detto Paolo Zabeo coordinatore dell’Ufficio studi - tuttavia questa percentuale di chiusura così elevata è molto preoccupante, anche perché continua ad aumentare di anno in anno». Già, perché se nel 2014 il tasso generale di mortalità si attestava al 45,4 per cento (ovvero la percentuale di imprese ancora in vita dopo 5 anni sul totale delle imprese nate nell’anno di riferimento, ossia il 1999), dieci anni dopo la soglia è salita al 55,2 per cento; quasi 10 punti in più. A soffrire maggiormente sono le imprese che operano nel settore delle costruzioni (62,7%) e del commercio.

Il problema dell’internazionalizzazione
Il limite, molto semplice da individuare, sta nell’approccio culturale italiano che ci portiamo dietro dal boom economico del dopoguerra, dove le grandi famiglie imprenditoriali italiane hanno goduto del successo industriale grazie a una forte domanda interna. Molte aziende pensano ancora oggi che questo approccio sia sufficiente, ma non è così. La tecnologia e la rete hanno accorciato notevolmente le distanze e oggi non è più possibile prescindere dal mercato globale. «Per le startup non deve esistere la parola «estero», ma solo la parola «mercato» - ci aveva raccontato in un’intervista Marco Bicocche Pichi, presidente di Italia Startup -. Dobbiamo sempre e con forza ricordarci che siamo (e speriamo che continui ad essere così) membri dell’Unione Europea e, pur con difficoltà, operiamo in un mercato di libera circolazione di merci, capitali e persone. Le startup Italiane migliori e più promettenti nascono «global» nelle loro ambizioni come da ogni altra parte del mondo». Per essere finanziate le imprese devono dimostrare di avere una forte domanda e se la domanda interna non c’è sono costrette ad andare all’estero, anche se dovrebbero farlo a prescindere. Ma per sbarcare sui mercati esteri hanno bisogno di fondi. Fondi che non ci sono. Il problema è quindi interno e soprattutto collettivo e l’unica soluzione auspicabile sarebbe quella di creare un sistema di finanziamenti che porti le imprese ad accedere ai mercati internazionali. Non dobbiamo in nessun modo dimenticarci che i nostri clienti, di fatto, possono trovarsi potenzialmente in qualsiasi angolo del mondo.

Il flop delle imprese artigiane
Il problema dell’internazionalizzazione appare evidente quando analizziamo il settore dell’artigianato, pietra miliare del Made in Italy che ci ha contraddistinto e ancora lo fa, in tutto il mondo. Un settore che è rimasto però ancorato alle radici del passato e che sta lentamente morendo come dimostrano i numeri, inconfutabili. Rispetto al 2015, le imprese artigiane presenti nel 2016 nel nostro Paese sono scese di 18.401 unità, attestandosi a quota 1.331.396. Una «caduta» che ormai si verifica ininterrottamente dal 2009. In questi ultimi 7 anni, infatti, lo stock di imprese artigiane è diminuito di ben 134.553 unità. Per contro, le imprese non artigiane sono in aumento dal 2014 e l’anno scorso hanno raggiunto quota 3.814.599 (+ 20.013 rispetto al 2015), allineandosi, di fatto, con il dato che avevamo nel 2009 (3.817.582).