19 marzo 2024
Aggiornato 05:30
Il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale

Usa, con McMaster la Russia rimane il nemico

L'ultimo di una lunga serie di segnali che il disgelo con Mosca è ancora lontano è la nomina di Herbert McMaster al posto di Michael Flynn. Un generale non proprio conciliante nei riguardi della Russia

WASHINGTON - Il Cremlino nega, ma è probabile che il sentimento che in queste ore prevale, a Mosca, in merito ai rapporti con gli Stati Uniti sia la delusione. Donald J. Trump, grazie a numerose e contestate affermazioni, si era presentato come il Presidente del disgelo, colui che avrebbe messo un «punto e a capo» nelle turbolente relazioni tra le due potenze, nettamente peggiorate dopo la crisi ucraina. E invece, nelle ultime ore diversi segnali contrastanti hanno fatto pensare che quel «reset» rimarrà ancora per un po' un'oasi nel deserto. 

Marcia indietro
Prima la dichiarazione del Presidente a proposito della necessità che Putin restituisca la Crimea; quindi la prudenza nell'iniziare una cooperazione militare con Mosca; la ribadita assoluta fedeltà alla missione dell'Alleanza Atlantica, fino a poco prima definita «obsoleta»; la difesa imprescindibile della «posizione di forza» degli Usa rispetto alla Russia. Senza contare, poi, la riproposizione, da parte del Comandante in capo Usa, dell'idea di creare «zone di sicurezza» in Siria, per ovvie ragioni fortemente osteggiata da Mosca.

Leggi anche «Il disgelo con la Russia: una missione impossibile anche per Trump?»

Il caso Flynn
Chissà se, a riportare Trump sui binari dei suoi predecessori, siano state le tante pressioni di agenzie e apparati, iniziate già da prima del suo insediamento. E' anche possibile che il «casus belli» sia stata la vicenda dell'ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, rimosso per una imprudente telefonata con l'ambasciatore russo in cui si parlava, tra le altre cose, di sanzioni. Di certo, l'ultimo segnale che il «disgelo» è rimandato a data da destinarsi è giunto proprio a seguito di quelle dimissioni, con la nomina di Herbert Raymond McMaster per il posto rimasto vacante. Una nomina, si potrebbe dire, per nulla casuale, visto che, se Flynn è «crollato» sotto l'accusa di presunti legami con la Russia, e McMaster, su Mosca, è tutt'altro che conciliante.

McMaster e la Russia
Il generale ha infatti finora comandato l’«Army Capabilities Integration Center», interno al cosiddetto «Army Training and Doctrin Command» (Tradoc), il Comando, cioè, che plasma il modo in cui l’Esercito pensa e si prepara ai conflitti futuri. Il ruolo di questo organismo, in pratica, è quello di emanare una visione dei nemici degli Usa che poi, com'é comprensibile, impatta fortemente sulla politica estera statunitense. Su Mosca, McMaster ha promosso il «Russia New Generation Warfare Study» per analizzare la cosiddetta «guerra ibrida», manifestatasi nel sostegno di Mosca agli insorti del Donbass in Ucraina.

Il ruolo di McMaster nella crisi ucraina
I membri di quel gruppo hanno visitato la linea del fronte in Ucraina più di 20 volte dal 2014, partendo dal presupposto di una superiorità militare di Mosca, e allo scopo di progettare le nuove forze armate statunitensi del 2020. Un progetto all'insegna, naturalmente, del riarmo e, potenzialmente, di ulteriori conflitti. Non a caso, la scorsa settimana McMaster, davanti alla Commissione Difesa, ha affermato: «Mentre le nostre forze armate erano impegnate in Afghanistan e Iraq, i russi hanno studiato le nostre vulnerabilità, e si sono impegnati in una modernizzazione efficace. In Ucraina ad esempio, la loro combinazione di droni a di capacità di disturbo elettronico testimonia di un alto grado  di  sofisticazione tecnica».

La Russia rimane il nemico
D'altra parte, la rilevanza che l'Esercito americano assumerà da qui ai prossimi anni dipende fortemente dall’esito del dibattito sulla pericolosità della Russia. Inutile dire che la politica di contenimento verso Mosca costituisce una potente ragione di vita delle forze terrestri statunitensi e della Nato stessa. E di tutti quegli investimenti nell'industria delle armi e nel comparto bellico-militare a cui Washington difficilmente potrà sottrarsi. Una delle ragioni per cui la fine dell’avversità del Pentagono verso Mosca, anche sotto Trump, pare una prospettiva decisamente lontana. La scelta di McMaster, insomma, assomiglia a una rassicurazione al Congresso e agli apparati: contrariamente ai presupposti, la Russia rimane un nemico. Almeno per ora.