Rapporto Anvur, ecco perché i ricercatori abbandonano l'Italia
Il rapporto Anvur sugli atenei italiani ne individua i punti di forza e di debolezza: evidenti disparità tra le regioni nell'offerta didattica, pochi finanziamenti per la ricerca e "cervelli in fuga". Ma migliora la regolarità dei percorsi di studio, aumenta la mobilità tra gli atenei nazionali e crescono le docenze in rosa
ROMA - L'incertezza associata alle prospettive di carriera accademica causa l'abbandono della carriera da parte di molti dottori di ricerca e assegnisti che non possono permettersi lunghi periodi d'insicurezza retributiva, e favorisce la «fuga dei cervelli» in proporzioni superiori a quelle fisiologiche, ovvero senza un corrispondente flusso di ricercatori in arrivo dalle istituzioni estere.
Il rapporto Anvur sugli atenei italiani
A lanciare l'allarme è il rapporto Anvur sugli atenei italiani, il secondo rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca presentato oggi a Roma, che delinea un quadro tra ombre e luci dell'università italiana. Tra le maggiori difficoltà, il fatto che, nonostante una costante crescita osservata negli ultimi anni, l'Italia rimane tra gli ultimi paesi in Europa per quota di popolazione in possesso di un titolo d'istruzione terziaria, anche tra la popolazione più giovane (24% contro 37% della media UE e 41% media OCSE nella popolazione 25?34 anni).
Troppo pochi i laureati
Il nostro paese ha colmato la distanza in termini di giovani che conseguono un diploma di scuola secondaria superiore, ma presenta tassi di accesso all'istruzione terziaria ancora più bassi della media europea e OCSE (42% contro 63% nella media UE, 67% media OCSE). Ancora, l'aumento positivo della mobilità degli studenti si è realizzato «in un contesto di tagli al diritto allo studio, spesso operati a livello regionale, che intaccano l'uguaglianza delle opportunità richiesta dal dettato costituzionale».
Evidenti disparità nell'offerta didattica
La principale criticità del sistema di diritto allo studio «non è solo la cronica carenza di risorse (nell'ammontare e nei tempi) ma anche la sua eterogeneità (tra regioni e, all'interno delle stesse regioni, tra atenei) nei requisiti di accesso e nei tempi di erogazione dei benefici, di incertezza circa la permanenza del sostegno da un anno all'altro». Alcune regioni, oltre a non investire risorse proprie, hanno utilizzato i fondi destinati agli interventi a favore degli studenti capaci e meritevoli per altre finalità.
Le critiche dei docenti
Critico anche il fronte docenti, e non solo quello studenti: la riduzione del corpo docente a seguito dei pensionamenti, è stata solo parzialmente compensata con l'ingresso di ricercatori a tempo determinato, una figura innovativa che stenta tuttavia ad affermarsi. Dalla fine degli anni Novanta a oggi il personale docente di ruolo è cresciuto a "campana": è aumentato senza soluzione di continuità raggiungendo un livello massimo nel 2008 (62.538 assunti) e successivamente è sceso del 12% fino al 2015 (54.977), a seguito dei provvedimenti di blocco del turnover.
In Italia pochi finanziamenti per la ricerca
Endemico ormai il problema della quota del prodotto interno lordo dedicata alla spesa in ricerca e sviluppo, che è rimasta stabile nell'ultimo quadriennio (2011-2014), confermandosi su valori molto inferiori alla media dell'Unione Europea e dei principali paesi OCSE: con l'1.27% l'Italia si colloca solo al 18° posto (con una quota uguale alla Spagna) tra i principali paesi OCSE con valori superiori solo a Russia, Turchia, Polonia e Grecia, ma ben al disotto della media dei paesi OCSE (2,35%) e di quelli della comunità europea (2,06% per UE 15 e 1,92% per UE 28).
I punti di forza dell'università italiana
Per quanto riguarda invece i punti di forza del sistema, il Rapporto Anvur evidenzia il fatto che negli ultimi due anni si è arrestato il calo degli immatricolati che si era osservato a partire dalla metà degli anni Duemila. Nell'ultimo anno si registra una prima inversione di tendenza, con un incremento dell'1,6% del numero di iscritti (del 2,4% tra i giovani con età pari o inferiore a 20 anni). Il numero degli immatricolati è cresciuto soprattutto al Nord con +3,2% (4,1% sotto i 20 anni), ma ha avuto un miglioramento anche nel Mezzogiorno con +0,4% (+0,8% sotto i 20 anni).
Migliora la regolarità dei percorsi di studio
Migliora anche la regolarità dei percorsi di studio sia dal punto di vista di quanti terminano gli studi nei tempi previsti, sia della diminuzione di coloro che non proseguono al secondo anno. Nell'anno 2014/2015 dopo 11 anni dall'iscrizione risulta che il 57,8% degli studenti si è laureato, il 38,7% ha abbandonato e il 3,5% ancora iscritto. I tassi di abbandono più bassi si registrano nei corsi a ciclo unico, in particolare nelle aree di Farmacia e Medicina e chirurgia (che sono ad accesso programmato), con una percentuale di abbandono intorno al 67%. Da segnalare invece l'altissima percentuale di abbandoni tra gli studenti provenienti da un istituto professionale: dopo 3 anni di corso triennale abbandona l'università tra il 44% e il 48% degli iscritti.
E' aumentata la mobilità tra gli atenei nazionali
Ancora, la mobilità degli studenti tra atenei è aumentata in tutte le aree del Paese, specialmente a livello di lauree magistrali: la quota di quanti studiano fuori regione è salita dal 18% del 2007/2008 al 22% nel 2015/2016. Della maggior mobilità hanno tratto beneficio al Nord soprattutto gli atenei del Piemonte, dove l'incidenza di studenti fuori regione è salita dal 12% al 26% tra il 2007/2008 e il 2015/2016. La quota di residenti nel Mezzogiorno che s'immatricolano in un ateneo del Centro?nord è salita da circa il 18% della metà dello scorso decennio al 24%.
Bene le docenze in rosa
Buone notizie anche sul fronte delle docenze in rosa: la presenza femminile tra i docenti cresce in maniera costante e regolare: dal 1988 a oggi è passata da 26 a 37 donne ogni 100 docenti (la quota media dei paesi OCSE è 42). Dal 2007 al 2015 la quota delle donne tra gli ordinari è passata dal 18,5 al 21,6%; tra gli associati è salita dal 33,6 al 36,5% e tra i ricercatori dal 45,1 al 46,5%. La presenza femminile è quindi in costante crescita ma resta inferiore al 50%, nonostante già dagli inizi degli anni Novanta la quota di donne superi quella degli uomini tra i laureati e anche tra quanti conseguono un dottorato di ricerca.
(Con fonte Askanews)
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