Pomigliano, l’ora della chiarezza
Alla Fiat spetta di rispettare i patti, alla Fiom di accettare l’esito del referendum
ROMA - Tutti gli italiani dovrebbero dire grazie a Sergio Marchionne. Dovrebbero dirgli grazie anche coloro che ne avversano proposte e metodi.
Sergio Marchionne infatti ha introdotto una pratica che a memoria di chi scrive è stata sempre assente sia dalle relazioni sindacali che in quelle sociali: la chiarezza.
L’amministratore della Fiat finora non ha mistificato progetti ed obiettivi. E’ stato categorico su Termini Imerese: deve chiudere e basta. E’ stato categorico con Pomigliano: riportiamo una parte della produzione in Italia a patto che siano consentite delle condizioni di lavoro che limitino la libertà di manovra degli operai.
Se quello di Pomigliano, secondo i dirigenti della Fiom, è un ricatto, per coerenza i sindacalisti oltranzisti dovrebbero riconoscere all’amministratore delegato il «merito» di non avere esercitato alcun ricatto su Termini Imerese: ha detto fin dall’inizio che lo stabilimento andava chiuso e non ha chiesto nulla in cambio per ammorbidire la sua posizione.
Resta da vedere, però, a chi fanno comodo sofismi come quello da noi sollevato o altri che sono caduti a pioggia in questi giorni su Pomigliano per orientare il voto delle tute blu.
Sicuramente non aiutano i lavoratori. Sicuramente confermano la validità del metodo Marchionne di dire pane al pane e vino al vino.
Il manager della Fiat è benemerito perlomeno per due motivi: ha posto il mondo del lavoro davanti alla scelta fra realismo e teoria, ma ha anche tracciato un solco netto fra azienda e istituzioni.
I sindacati che hanno respinto le sue proposte, ma soprattutto quello che chiamano «l’asservimento alle leggi del mercato» ora sono tenuti a dire quali alternative propongono. Quali obiettivi perseguono che possano prescindere dalla conservazione del posto di lavoro.
La separazione fra azienda e Stato è invece sancita dalla fermezza di Marchionne su Termini Imerese. Una intransigenza che può essere interpretata come il sigillo di una filosofia fondata su due pilastri: primo, l’impresa non può sopravvivere in perdita; secondo, spetta allo Stato provvedere agli ammortizzatori sociali necessari ad impedire che le crisi aprano un baratro pericoloso per l’incolumità delle famiglie, della società e dell’economia.
Finora in Italia si è sempre preferito scegliere soluzioni equivoche (con il concorso determinante degli imprenditori e dei sindacati, va detto) dove i contorni dei due pilastri alla Marchionne sono stati diluiti in sostegni, appoggi esterni e intrecci fra Stato e industria che alla fin fine non hanno mai salvato una fabbrica dal fallimento e non hanno conservato un posto di lavoro.
La scarsa trasparenza di questi interventi, è servita solo a far lievitare enormemente i costi degli ammortizzatori sociali, a fornire un comodo bacino elettorale a politici incapaci di trovare soluzioni idonee e a riempire le tasche dei furbastri e dei disonesti che sempre prosperano in acque torbide.
E’ chiaro che il giudizio negativo sull’epoca che precede Marchionne non riguarda lo strumento della cassa integrazione. Giustamente in Italia si è scelto di provvedere ad un collante che avesse il duplice effetto di dare un sostegno economico alla crisi, ma anche di impedire che si interrompesse il contatto fra l’azienda in crisi e il lavoratore momentaneamente sospeso dall’attività.
In passato questa scelta ha consentito al sistema industriale di superare periodi di grande difficoltà. Si spera che possa sortire gli stessi effetti di conservazione del tessuto industriale anche nella crisi che stiamo vivendo.
In alternativa il sussidio di disoccupazione adottato da altri Paesi, fatto salvo l’effetto di non avere fatto precipitare i consumi, ha prodotto più danni di quanti ne abbia sanati.
Quando ci riferiamo ad epoche e comportamenti «ante-Marchionne intendiamo i tempi della cassa integrazione protratta per anni. Agli enti pubblici costituiti per diventare lazzaretto delle imprese (gli scomparsi Efim , Egam, Gepi). A salvataggi di grandi carrozzoni senza futuro pagati con i soldi dei contribuenti (con l’augurio che l’Alitalia non sia fra questi).
In questo magma indistinto foraggiato dalle casse pubbliche, la Fiat negli anni trascorsi, non bisogna dimenticarlo, ha svolto un ruolo da protagonista.
Se va guardato infatti con il rispetto dovuto il «post-Marchionne», non va dimenticato, però, l’»ante- Marchionne».
La Fiat in passato, fra finanziamenti, agevolazioni, fabbriche regalate, scelte politiche e rottamazioni, ha rappresentato la quintessenza dell’intreccio equivoco fra Stato e azienda.
Il risultato quale è stato? La Fiat ha perso enormi quote di mercato ed è stata sul punto di fallire.
Marchionne con il suo metodo chiede indubbiamente dei sacrifici, ma prospetta degli obiettivi raggiungibili. Inoltre non parte da zero. Si è già guadagnato una credibilità con quanto ha fatto finora.
Un rapporto di lavoro destinato a durare nel tempo non può fare a meno di una componente di fiducia.
A litigare c’è sempre tempo. E sarà difficile dire no alle rivendicazioni quando tornassero le vacche grasse.
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