19 aprile 2024
Aggiornato 23:30
I «Contadini del tessile» si ribellano: parla l’industriale di Biella Luciano Barbera

Basta con i compromessi sul «Made in italy»

Intanto minacciano una manifestazione di protesta per metà novembre

Luciano Barbera è un industriale di Biella. Con il fratello Giorgio è titolare di una azienda fondata dal padre nel 1949. che occupa 80 dipendenti e produce lane finissime e cachemire.
Barbera è uno di quegli uomini che in passato venivano definiti «arbiter elegantiarium». Una qualità apprezzata anche in campo internazionale, che ha portato Barbera a lanciare negli Stati Uniti una linea di abbigliamento uomo-donna e fare di lui il consulente del look personale di John John Kennedy, il figlio morto in un incidente aereo del mitico presidente degli Stati Uniti.

Luciano Barbera da tempo si batte affinché il marchio «made in italy» non subisca contaminazioni da parte di chi vende prodotti che di italiano hanno solo l’etichetta o poco più. E’una difesa che non ha nulla di snobistico: la credibilità del marchio «made in Italy» è infatti l’unica arma delle medie e piccole aziende, le quali solo con la qualità possono contrastare lo strapotere di chi pratica produzioni terzomondiste.
«Considero umiliante che da noi si debba combattere per difendere un bene comune quando ormai, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Cina le nostre esportazioni sono sottoposte da quei governi ad una sorta di radiografia impietosa che ci obbliga a denunciare anche il numero della nostra partita Iva», ha detto Barbera al Diario del Web.
L’industriale biellese fa parte anche di quel gruppo di ribelli del tessile italiano, capeggiati da Roberto Belloli, responsabile della tessitura «Aspesi», che hanno scelto la protesta a viso aperto per portare avanti la causa del «made in Italy» senza se e senza ma.
«Ho anche fatto parte del comitato per la difesa del «made in Italy» della Confindustria, ma dopo due o tre passeggiate a Roma mi sono resoconto che ci stavamo prendendo in giro» denuncia Luciano Barbera lasciando capire che senza possibilità di scampo il potere è tutto in mano ai rappresentanti della grande impresa, a dispetto delle Pmi che pure rappresentano l’85 per cento dell’industria italiana.
Barbera venerdì scorso ha partecipato ad una riunione dei «Lions», Biella Bugella Civitas, di cui è presidente Irene Rigola Boglietti, abile e combattiva imprenditrice.
L’industriale biellese ha ascoltato l’intervento del deputato del Pdl, Santo Versace, uno dei promotori di una legge in linea con le richieste dei ribelli del tessile. Poi, per richiamare anche l’attenzione delle autorità locali, presenti alla serata dei Lions, ad un’opera di vigilanza su una proposta che potrebbe ridare una boccata di ossigeno a quelle aziende in difficoltà che producono sul territorio, ha pronunciato questo intervento che Diario del Web pubblica integralmente:

«Mi preme contribuire e fare chiarezza su due argomenti ben distinti: «MADE IN» e «Made in Italy»:
1) «MADE IN » = «Fatto In»
Ogni prodotto, ovunque prodotto, dovrebbe essere etichettato con l’indicazione del Paese di origine.
Etichetta applicata sotto la garanzia precisa del Paese dove il prodotto è stato realizzato.
2) «MADE IN ITALY» = «Fatto in Italia»
Etichetta che dovrebbe quindi obbligatoriamente identificare i prodotti esclusivamente fatti in Italia.
Tutto semplice, quindi.
D’altro canto, vi sono esperienze già radicate sin dal 1930 negli Stati Uniti e dal 1970 in Giappone a cui si potrebbe attingere.
Ma purtroppo non è così.

In Europa è prevalsa la teoria della globalizzazione, del libero mercato.
Teoria illuminata, se fosse stata abbinata a regole ben precise che non l’avessero degradata a globalizzazione selvaggia, frutto di un mercato senza regole, dove uno agisce badando esclusivamente ai propri personali interessi ed abusando di situazioni in Paesi dove i diritti umani sono disattesi, dove non vigono barriere sindacali, dove i lavoratori non hanno alcuna tutela, dove i minori vengono sfruttati senza ritegno, dove si utilizzano prodotti dannosi alla salute.
Questa globalizzazione selvaggia, che nella testa degli «illuminati» avrebbe dovuto permettere all’Europa la conquista di enormi mercati quali quello cinese e quello indiano, si sta rivelando un boomerang e sta minando l’Europa del manifatturiero, quindi l’Italia in particolare, che in Europa è leader di questo settore.
A ciò si aggiunga che, in mancanza di una precisa regolamentazione del «Made in Italy», tante industrie italiane hanno delocalizzato in tutto o in parte le loro produzioni, logorando ancor più il nostro sistema produttivo Paese, che ora subisce lo smantellamento di intere filiere, aumentando lo stato di disagio e di crisi delle aziende del settore che vorrebbero continuare a produrre in Italia.

Desidero ricordare che nel 1986, rientrato da un viaggio in Asia ed in Estremo Oriente, dove vidi fiorire stabilimenti, comunicai i miei timori agli imprenditori del tessile e abbigliamento e si diede vita al «Biella Master delle Fibre Nobili» per poter tramandare alle future generazioni il nostro saper fare, l’ »arte italiana» del tessile e abbigliamento.
Nel 1986 Tremonti non aveva ancora scritto, né dei pericoli derivanti della Cina, né sul mercatismo, né sulla globalizzazione selvaggia!

Ora siamo in ginocchio.
L’Italia in Europa continua da più di cinque anni a illuderci chiedendo che per taluni prodotti provenienti dai Paesi extra-europei sia obbligatoria l’etichetta del Paese di origine con trasparenza e tracciabilità.
Questo è il tanto decantato «MADE IN», di cui sono pieni i giornali e che genera confusione, alimentando false speranze sul futuro del «Made in Italy», che, allo stato attuale delle cose, col «MADE IN» così come ora concepito, non ha alcuna attinenza.
Sul «MADE IN », a mio parere, vi sono però anche due chiare obiezioni.
La prima, di ordine morale: non ritengo sia onesto chiedere una certificazione che noi non siamo in grado di fare o non vogliamo fare.
La seconda: se si va veramente a fondo della nostra proposta in Europa, ci si accorge di quanti compromessi e di quante mediazioni sarà orpellato il testo di legge che si spera di far approvare.
Il Ministro Urso è pronto ad escludere da questo obbligo, oltre ai prodotti provenienti dalla Turchia, anche quelli provenienti da Paesi del Mediterraneo quali Marocco e Tunisia, dove la Francia in particolare fa realizzare le sue griffe.
Ma tanta è la «leggerezza» dei nostri politici su questo argomento.
I Ministri Urso e Scajola, addirittura in recenti convegni del Sistema Moda Italia e di Confindustria, hanno rivelato la loro «anima», affermando con l’apparente consenso di queste organizzazioni, che si dovrà sempre più considerare l’«Italian concept», cioè la «testa», la «creazione», il «design» in Italia e la produzione all’estero.
Esporteremo anche le nostre aziende e la nostra manodopera?
Noi «Contadini del Tessile» ci ribelliamo, appoggiamo incondizionatamente la proposta di legge Reguzzoni-Versace-Calearo che dal nostro Movimento in breve tempo è scaturita e che è stata firmata da più di 140 parlamentari di tutto l’arco costituzionale.
Noi desideriamo la salvaguardia del nostro saper fare manifatturiero e dei posti di lavoro in Italia, la promozione nel mondo del vero Made in Italy e non di quello mendace che, utilizzando nomi e slogan italiani, si propone come tale.
Noi desideriamo che per la difesa dei sacrosanti diritti dei cittadini, il «Made in Italy» sia obbligatoriamente esposto su ogni prodotto fatto «esclusivamente» in Italia, e non, come taluno vorrebbe, solo «principalmente» in Italia.
Non ci devono più essere aziende italiane che si credano depositarie del «Made in Italy», ovunque realizzino i loro prodotti.
Il «Made in Italy » è un patrimonio di tutti gli italiani, una carta di identità, un passaporto che così come questi documenti garantiscono l’italianità del possessore, e non la sua intelligenza o la sua bellezza, garantirà al mercato mondiale solo che il prodotto è fatto esclusivamente in Italia, e quindi dovrà essere tutelato per legge, che ne determini i limiti dell’utilizzo e preveda adeguate sanzioni per colpire e distruggere i falsari e i contraffattori.

Luciano Barbera, industriale tessile di Biella