19 marzo 2024
Aggiornato 03:30
Mafia

L'inedita profezia di Falcone: «Cosa nostra non sbaglia un omicidio»

E' un Giovanni Falcone che parla a ruota libera quello che si ascolta in un audio inedito che Askanews diffonde oggi in esclusiva (anche in un podcast dal titolo «Falcone: le parole inascoltate»

Capaci, il luogo della strage del 23 maggio 1992
Capaci, il luogo della strage del 23 maggio 1992 Foto: ANSA

La rete tentacolare della mafia, il cui epicentro è e resta Palermo. I legami tra gli uomini d'onore e i voti elettorali, le nuove sfide che si aprono con la riforma del Codice di procedura penale, l'organizzazione «unica ed unitaria» di Cosa nostra. Ed ancora, il ruolo del 'corto' Totò Riina, e di Pippo Calò, gli interrogatori estenuanti del pentito Tommaso Buscetta. E' un Giovanni Falcone che parla a ruota libera quello che si ascolta in un audio inedito che Askanews diffonde oggi in esclusiva (anche in un podcast dal titolo «Falcone: le parole inascoltate».

In quell'incontro - con uomini della polizia giudiziaria - che porta la data del marzo 1989, il magistrato simbolo della lotta alla mafia traccia i connotati di Cosa nostra come «una organizzazione a raggiera» che «produce certi risultati». La viva voce di Giovanni Falcone emerge dal passato e arriva fino a noi per offrirci la visione del fenomeno mafioso, letto e codificato attraverso uno sguardo critico che supera indenne il passare del tempo e i crateri delle stragi.

Un documento eccezionale ed esclusivo; un'eredità recuperata e straordinariamente attuale che nel trentennale delle stragi di Capaci e via D'Amelio diventa patrimonio di tutti e che, con tante verità ancora da scoprire, assume un valore più prezioso per un messaggio, che ha quasi un sapore profetico: «Non c'è un omicidio sbagliato, finora, in seno a Cosa nostra - affermava Falcone, a pochi mesi dall'attentato sventato all'Addaura -. Quando si uccise Dalla Chiesa tutti dissero 'è stato commesso un errore storico'. Poi hanno ucciso Chinnici, anche questo 'errore storico', poi hanno ucciso Cassarà e hanno detto, 'altro errore storico'. E continuiamo a fare errori storici. Non hanno sbagliato. Hanno sempre indovinato: momento opportuno, momento giusto, hanno colpito al momento giusto, il che dimostra, a parte la ferocia e la determinazione, una assoluta conoscenza di notizie di prima mano».

Nei giorni in cui si apriva il secondo grado del Maxiprocesso che due anni prima aveva portato alle pesantissime condanne del gotha mafioso, Falcone illustra ai suoi interlocutori le intuizioni su come Cosa nostra s'insinua all'interno del tessuto sociale partendo da un presupposto: l'epicentro della mafia è Palermo.

«Su spostamenti di consigli di amministrazione della mafia dalla Sicilia altrove, togliamocelo dalla testa. Epicentro della mafia è sempre la Sicilia e Palermo - continua nell'audio il magistrato -. Non si può far parte e gestire Cosa nostra se non hai controllo del territorio nei punti cardine altrimenti duri lo spazio di un mattino».

«Piaccia o non piaccia? vi è una organizzazione unica ed unitaria che è Cosa nostra. E quella è l'associazione mafiosa - dice -. L'organizzazione di Cosa nostra è un qualcosa che investe tanto a reticolo tutto il territorio che basta che solo alcuni diano gli ordini, tutto il resto diventa un fatto automatico».

Ma non solo. Nel suo lungo intervento, Falcone disegna i rapporti tra clan, uomini d'onore e organizzazioni mafiose tra Sicilia e Stati Uniti facendo esplicito riferimento al ruolo di capo assoluto rivestito dal «corto» Totò Riina: «Giuseppe Gambino, parlando del corto cioè di Totò Riina, dice che non si muova foglia senza che il corto non dia il suo benestare», racconta Falcone.

E ancora il ruolo di «cerniera» rappresentato dal boss Pippo Calò tra Cosa nostra e criminalità organizzata romana: «Pippo Calò era importante a Roma per se stesso, per i suoi importantissimi contatti con la delinquenza locale, la banda della Magliana in particolare. Non era cassiere della mafia, ma era cassiere di se stesso».

Quindi Giovanni Falcone rivela per la prima volta le difficili condizioni emotive patite da Tommaso Buscetta, il «boss dei due mondi», che in centinaia di pagine di verbali gli raccontò per primo la logica e l'organigramma di Cosa nostra: «Quando sono andato a interrogare Buscetta dopo la sua deposizione al processo della Pizza Connection - racconta ancora Falcone - era in particolare stato di prostrazione psichica. Ma cosa è successo? Sono stato addestrato per il processo. Che dall'oggi al domani le persone che qualche mese prima del suo esame le persone che gli stavano accanto, i funzionari addetti alla sua protezione, che prima erano in rapporti estremamente cordiali con lui non gli rivolsero più la parola».

Grande sostenitore della riforma del processo penale, Falcone spiega in modo efficace e approfondito ciò che questa rivoluzione procedurale comporterà, sia in termini di metodologia d'indagine, facendo dei distinguo tra indagini a Palermo e indagini a Milano: «Ho avuto una lunga discussione, quasi uno scontro con i colleghi di Milano che si lamentavano perché a Palermo non si potevano fare pedinamenti, non si potevano scoprire cose. E dicevo: c'è una piccolissima differenza. A Milano voi fate i pedinamenti, qui si muore per queste cose». Sia in termini d'impostazione, sia di ruoli all'interno del dibattimento: «Vero è che questo impianto del nuovo codice impedisce, impedirà la celebrazione dei maxiprocessi ma questo non significa affatto impedire le maxi inchieste, anzi. Perché finora molto spesso la criminalità è organizzata, mentre la repressione è disorganizzata - spiega -. Penso al dramma per molti miei colleghi che dovranno scendere dallo scranno del pubblico ministero seduto accanto alla corte e sedersi sui tavoli della difesa accanto ai difensori. Perché saranno parti, così come sarà parte la difesa privata». (Di Serena Sartini e Andrea Tuttoilmondo)