24 aprile 2024
Aggiornato 04:00
Se questa è democrazia

Marino indagato. Per lesa maestà a Matteo Renzi

Con le dimissioni in blocco dei consiglieri comunali si chiude (stavolta definitivamente) il mandato del sindaco di Roma. Che di errori, in questi due anni, ne ha commessi tanti. Ma che ha pagato solo il coraggio di essersi opposto all'imperatore del Pd

ROMA – Ignazio Marino è una persona perbene, ma non è un vero politico. O, forse, non è un vero politico proprio perché è una persona perbene. In due anni di mandato di errori ne ha commessi tanti, come abbiamo sempre riconosciuto. Ha creduto di poter governare una città sostanzialmente ingovernabile e di poter sconfiggere una mafia profondamente radicata nel tessuto sociale e politico tutto da solo, nel suo dorato isolamento del Campidoglio. Non ha fatto nulla per costituire un'alleanza di ferro con la parte sana della cittadinanza (che, vivaddio, ancora esiste), preferendo piuttosto prenderla a schiaffi con continui messaggi simbolicamente inaccettabili, dal parcheggio selvaggio della Panda rossa alle fughe all'estero. Ha sottovalutato la gravità dei disastri amministrativi che paralizzano la Capitale (mezzi pubblici, pulizia e chi più ne ha più ne metta), che certo non ha creato lui, ma che ci si sarebbe aspettati affrontasse con maggior decisione in tutto questo tempo. Ha insistito in una comunicazione masochistica, rispondendo con giustificazioni contraddittorie e balbettate a tutti gli scandali che gli venivano rinfacciati strumentalmente. Ha capito troppo tardi come il Partito democratico volesse affondarlo, solo dopo aver accettato un umiliante rimpasto della Giunta che gli imponeva assessori scelti solo per la loro stretta osservanza renziana. Ha trasformato in uno squallido teatrino l'ultimo mese della sua sindacatura, invece di gridare ai quattro venti la sua innocenza e sfidare da subito a viso aperto tutti coloro che volevano mandarlo a casa, non certo per gli scontrini.

Re Matteo primo
Eppure non prendiamoci in giro: il vero errore per cui Ignazio Marino è caduto è avere avuto il coraggio di sfidare Matteo Renzi. «Sono stato accoltellato da 26 persone – ha sintetizzato efficacemente ieri in una drammatica conferenza stampa, riferendosi ai consiglieri comunali che, dimettendosi, lo hanno costretto ad andarsene – ma il mandante è uno solo». Ignazio Marino non è stato un grande sindaco, ma sia dal punto di vista amministrativo che da quello etico non sfigura certamente nel panorama dell'imbarazzante classe dirigente del Partito democratico. Che di incapaci, di indagati o addirittura condannati (e non per due cene a sbafo), di catapultati su poltrone che non sono all'altezza di occupare, è piena: ma li salva tutti, purché giurino fedeltà a sua maestà Matteo Renzi. Marino, al contrario, ha osato ribellarsi, ed è stato punito con la peggiore vendetta politica: una sfiducia senza neppure il dibattito democratico in aula. Per giunta architettata da un segretario di partito che, lui sì, non è mai stato eletto dal popolo, che si è sottratto a qualsiasi confronto con il sindaco, che pur di battere il suo nemico ha chiesto aiuto perfino alla destra, e che è arrivato a minacciare i consiglieri comunali di non essere più ricandidati, se non avessero firmato la lettera di dimissioni. Il caso Roma, insomma, ha svelato una volta per tutte la vera faccia del Pd renziano: un partito che si è mangiato tutta quanta la Repubblica, ma che allo stesso tempo si è ridotto ad un enorme comitato elettorale a totale disposizione del suo leader. E chissenefrega di tutti quelli che abitano fuori dalle mura di Rignano sull'Arno. È per questo che Matteo Renzi ha voluto davvero far fuori Ignazio Marino: per colpirne uno, ed educarne cento. Ha potuto sfruttare la scusa delle due indagini a suo carico per falso e peculato (le cene rimborsate dal Comune) e per truffa (tre assegni staccati anni fa dalla sua onlus). Ma è un altro il vero reato per cui, se potesse, indagherebbe l'ormai ex sindaco di Roma: quello di lesa maestà.