26 aprile 2024
Aggiornato 18:30
Alfredo Reichlin - L'Unità

Il paradosso del PD

«Da un lato, insieme a segni di vitalità e di ripresa, permane un senso diffuso di sfiducia e si verificano manifestazioni di rivalità personali veramente insopportabili»

Se misuriamo bene la novità e la grandezza dei problemi che incombono sulla ripresa politica autunnale, c’è nella situazione del Partito Democratico qualcosa di paradossale.
Da un lato, insieme a segni di vitalità e di ripresa, permane un senso diffuso di sfiducia e si verificano manifestazioni di rivalità personali veramente insopportabili. Sembra che tutti si credono Napoleone. Dall’altro lato, però le prospettive, ma dobbiamo dirci di più: la ragion d’essere, la funzione politica nella vicenda nazionale di un nuovo soggetto politico come lo abbiamo cercato di definire (anche in un programma fondamentale del quale si è persa traccia) a me sembrano più che mai aperte.

Perché la distanza tra il dire e il fare è così grande? So che la risposta non è semplice. Dirò una cosa che può sembrare (ed è) troppo vaga ma che prego di non confondere col populismo.

Penso che noi in questi anni ci siamo distaccati, non dalla cosiddetta opinione pubblica, ma dal popolo. Il quale non è una somma di individui ma una soggettività in continuo divenire. Noi non siamo riusciti a leggere lo straordinario travaglio del popolo italiano. Questa è la verità. Un riformismo dall’alto tecnocratico, appunto «senza popolo», non poteva guidare quella sorta di «riformismo reale», spontaneo e perverso ma profondo, che consisteva nella risposta difensiva e selvaggia che Nord e Sud, operai e commercianti, imprenditori esposti alla concorrenza mondiale e roditori delle risorse pubbliche davano, ciascuno a suo modo, a uno straordinario processo di trasformazione dell’economia mondiale e degli assetti politici dell’Europa e del mondo che ormai ci investe in pieno. Dov’è la guida? Se la politica non si colloca a questo livello io credo che continueremo a giocare di rimessa e temo che l’attuale confronto tra noi (che è importante e al quale partecipo) non vedrà né vincitori né vinti.

È dal basso che bisognerebbe ripartire, dallo sforzo di fronteggiare la scissione sempre più profonda tra dirigenti e diretti (anche nel nostro popolo) tra i territori e soprattutto (mi pare che solo la Chiesa se ne sia resa conto) della vera e propria cesura che si è creata tra le generazioni. D’altra parte per quale ragione si fonda un partito nuovo? Solo per conquistare il premio di maggioranza e tornare al governo? Io credo che siamo entrati in una fase nuova, nel senso che non sarà facile tornare al governo se non alziamo la posta del gioco. Non dice nulla il fatto che i democratici americani propongono un uomo di colore alla presidenza del paese più potente del mondo?

Certi dibattiti estivi mi sono apparsi fuorvianti. Si è discusso sulla «scomparsa dell’opinione pubblica» (il solito cinismo e opportunismo degli italiani? La loro solita mancanza di senso dello Stato?) mentre in realtà era la classe dirigente che parlava dei temi imposti da Berlusconi ma non aveva nulla da dire di fronte al fatto che l’inevitabile avvio del federalismo rimette in discussione in un Paese come il nostro tutto. Cioè l’insieme delle strutture profonde dello Stato: dal rapporto tra i poteri alla funzione della scuola pubblica, al destino del Mezzogiorno. La stessa figura storica, culturale ed etica dell'Italia quale si era configurata dopo Porta Pia e poi ridefinita dopo il fascismo come repubblica democratica. Sbaglierò ma io vivo così questo passaggio.

Se non ora, quando il Partito Democratico si decide ad alzare il tono del suo discorso e a mettere sul tavolo tutta la sua ambizione?
Certi dirigenti ci risparmino le prediche sull’unità del Partito. Ad essi (molto amichevolmente) vorrei dire che io conosco una sola cosa che crea un gruppo dirigente e lo rende coeso: è la convinzione di assolvere a una grande missione che riguarda il futuro del Paese: guidare, appunto, quel processo profondo che coinvolge il modo di essere degli italiani e che è imposto dalla irruzione del mondo dentro le nostre vecchie frontiere e i nostri vecchi assetti. È chiaro che non sto scoprendo nulla. Sto parlando però di un processo che se era in atto da tempo, si è molto complicato per il fallimento della transizione, cioè della costruzione di una seconda Repubblica, e adesso viene allo scoperto e chiede decisioni non più riavviabili.

Noi che diciamo alla parte più avanzata del Paese, quella che sta nei mercati mondiali e si batte sulle frontiere avanzate dell’innovazione? È vero che cosa non può accettare il costo di un Mezzogiorno che rappresenta il 40 per cento del territorio e della popolazione ma che, a differenza di ciò che sta accadendo in tutta Europa continua ad arretrare e a consumare molto più di quello che produce: qualcosa come il 20 per cento del suo prodotto.
I vecchi compromessi fatti quando l’arretratezza del Mezzogiorno forniva alle fabbriche del Nord molte convenienze sono saltati.
In più è finita l’epoca in cui la sinistra meridionale era l’emblema delle lotte per la giustizia e il progresso.

Adesso larga parte della classe dirigente meridionale, anche se formalmente onesta, è prigioniera di un meccanismo che la spinge a cercare il necessario consenso politico facendosi tramite del fiume delle sovvenzioni statali ed europee. Il risultato è che una parte molto consistente di questi fondi non serve a creare una economia e servizi più moderni. Va ad arricchire i ceti parassitari e mestieri protetti ma largamente improduttivi.
La povera gente e soprattutto i giovani pagano un prezzo enorme e crescente. Vengono privati (vedi i dati sulla scuola) della stessa speranza in un progresso futuro. Ecco come la politica, quella vera non le chiacchiere dei giornali, va scomponendo e ricomponendo un popolo.

E così siamo arrivati al dunque. Ed è anche per questo che un vecchio dirigente comunista meridionale aveva sentito la ragione storica, ineludibile, per cui bisognava andare oltre i vecchi confini della sinistra e della sua vecchia cultura politica classista per creare un nuovo grande «partito nazionale».

Ma è proprio questo progetto che adesso è alla prova. Una difficile prova perché non siamo di fronte a un problema amministrativo, da delegare ai sindaci e agli addetti ai lavori. Noi finiremo a rimorchio della Lega se non abbiamo una idea nostra su come sia possibile in uno Stato federale garantire lo stare insieme degli italiani.

E' una partita che riguarda la tenuta anche culturale e civile del paese. E dobbiamo comunicarla questa idea non solo a Calderoli ma al Paese il quale deve ritrovare nel Partito democratico la speranza che c'è un futuro nel mondo nuovo per tutti gli italiani, del Nord come del Sud.
Ecco perché io davvero non capisco una disputa politologica del tutto astratta tra il «partito a vocazione maggioritaria» che starebbe in Largo Nazzareno e coloro che tramerebbero per un ritorno alle vecchie alleanze tra vecchi partiti.

Ma che cos’è il partito a vocazione maggioritaria? È una formula magica? Al contrario, io penso che sia un contenuto. È la capacità di rispondere a problemi come quelli accennati. Non è il rifiuto delle alleanze, è la più larga delle alleanze, è una nuova idea nazionale ed europea.
È la possibilità di mettere in campo una proposta federalista che non subisca una scissione silenziosa ma fondi una nuova articolazione dell’unità nazionale in coerenza con un progetto di europeizzazione dell’Italia. Solo così lo sviluppo del Mezzogiorno può diventare realistico, in quanto diventi funzionale agli interessi del Nord come dell’Europa continentale.
E ciò nella misura in cui nessun luogo come il Mezzogiorno sarebbe adatto a diventare la piattaforma mediterranea di una Europa che vuole parlare al mondo.

Si dirà che i problemi sono anche altri. Certo, anche. Ma diventa difficile difendere la centralità di una democrazia parlamentare se i deputati vengono nominati dall’alto e se la risposta al partito «leghista» del Nord (che non è solo Bossi) diventa quella del partito che il governatore della Sicilia sta già creando che consiste in una santa alleanza sicilianista, con relativa rimozione dei ritratti di Garibaldi.
Altro che seminari sulla democrazia dei partiti e discussione sulle alleanze del Pd.
C’è un grande bisogno di pensare il Pd in una prospettiva più ampia. La missione del partito riformista è integrare tutti gli italiani in una Europa che parla al mondo in prima persona e accoglie i diversi. Forse non è abbastanza concreto quello che dico. Ma a volte di concretezza si può anche morire.