19 marzo 2024
Aggiornato 06:00
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Cos'è davvero il Venture Capital, spiegato da chi lo fa

Il venture capitalist non è (solo) un cacciatore di sogni, ma un analista con una visione ampia e articolata di un mercato a cui difficilmente l’investitore ha accesso

Cos'è davvero il Venture Capital, spiegato da chi lo fa
Cos'è davvero il Venture Capital, spiegato da chi lo fa Foto: Shutterstock

MILANO - Il venture capital come asset investibile? Non può basarsi solo sulla power law. La regola aurea secondo cui in un portafoglio di VC esiste un solo titolo che sbanca il mercato e da solo fa la partita – trasformandosi in unicorno e facendo tutti i margini, non vale per il mercato italiano. Dove, com’è noto, esiste un solo unicorno, la Yoox ora fusa non Net-A-Porter che capitalizza 2,5 miliardi in Borsa. L’investimento in Venture Capital, percepito come ad elevatissimo rischio, si adatta in realtà anche a profili meno aggressivi, a patto di essere gestito con un processo che ricalca quello dell’asset allocation praticato dalle Sgr che gestiscono prodotti tradizionali, con l’unica differenza che noi trattiamo un asset illiquido. Una strada perseguibile se è vero che le stesse Sgr iniziano a introdurre questa tipologia tra le asset class investibili nei panieri che vengono proposti ai clienti.

«Il venture capitalist non è (solo) un cacciatore di sogni, ma un analista con una visione ampia e articolata di un mercato a cui difficilmente l’investitore ha accesso - spiega Andrea Di Camillo, Managing Partner di P101 Ventures, fondo di venture capital specializzato in investimenti in società digital e technology driven -. Noi monitoriamo ogni anno 2mila aziende e selezioniamo le migliori in base alle idee, alle persone, ai fondamentali su cui si basano e appunto anche in base al loro contributo e peso all’interno di un portafoglio che cerchiamo di bilanciare. Impossibile, come nella gestione patrimoniale, prevedere il rendimento di un fondo di VC. Ma quello che si può dire è che un paniere, costruito facendo uno stock picking basato su diversificazione e contenimento del rischio, ha un ritorno di due volte il capitale investito nel tempo della vita del fondo stesso».

Un funzionamento del tutto diverso e diretto a target completamente differenti rispetto a quello di chi usa l’approccio della power law: nel qual caso si punta su un cavallo che si ritiene vincente, si è inefficienti nel momento in cui si investe, ma si sta comprando un mercato che diventa proprio (è successo con Google, con WhatsApp, Alibaba). Ma è, appunto, un’azione più simile a una scommessa che a un investimento. Nel caso di P101 Ventures, le scelte di allocazione in portafoglio sono guidate innanzitutto dalla qualità dell’asset. Sono in particolare tre le dimensioni considerate:

1) La durata. Parliamo di un investimento che ha un orizzonte temporale lungo, se parliamo della fase intermedia di seed, di 7-10 anni. L’idea è tenere una duration media che non superi questo orizzonte: «Per farlo mescoliamo investimenti in fase di seed, con early stage e later stage - continua Di Camillo -. I criteri che determinano la dimensione delle tre categorie sono vincolati all’ampiezza del fondo. Maggiore è la capienza, più scientifico il bilanciamento in termini di duration».

2) I settori sottostanti. «Con P101 abbiamo investito sia in attività B2C che B2B - spiega Di Camillo -. Semplificando: nel B2B gli investimenti del venture sono inizialmente più contenuti ma durano di più nel tempo, le aziende crescono più lentamente ma i risultati che ottengono sono più duraturi. Dunque a fronte di capitale contenuto, abbiamo ritorni costanti e di medio/lungo termine». Nel B2C, al contrario, l’investimento – e la volatilità – è elevato, soprattutto nella parte di avvio dell’attività, ma anche i frutti si raccolgono nel breve termine. Conseguentemente il profilo di rischio/rendimento è alto.

3) La geografia. Sempre mantenendo un principio di rilevanza rispetto al mercato italiano, P101 ha cominciato a fare stock-picking , oltre a quelle industry in cui l’Italia è più forte, che anche in altri mercati, laddove le nostre competenze possono essere valorizzate. «Abbiamo fatto qualcosa che si avvicina più a un mercato quotato che a un VC, servendoci di un modello finanziario sottostante - dice Di Camillo -: un algoritmo proprietario che ci aiuta a fare le scelte corrette basandosi sui numeri e le evidenze. Non più tanti biglietti della lotteria ma alcune scelte pesate sulla base delle evidenze in cui la continuità dell’investimento conferma ed accresce il suo stesso valore».

E proprio per questo e in conclusione, c’è un quarto elemento trasversale, che condiziona l’allocazione, cioè che mancano in Italia i grossi ticket, che sono le operazioni su cui è possibile fare cash flow per l’investitore, pur tenendo il rischio misurato. I nostri investimenti quindi sono ancora piccoli, con un taglio medio di 5 milioni. Su questo gap è necessario intervenire, anche a livello istituzionale-legislativo, per incentivare investimenti più cospicui in quello che resta un mercato estremamente rarefatto rispetto alle potenzialità.