12 maggio 2025
Aggiornato 03:30
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Il «fallimento» dell'Open Innovation e la carica delle Università (e del territorio)

Qualche anno fa si parlava di Open Innovation. Oggi, la strada per la crescita economica è, tuttavia, rappresentata dal cosiddetto «trasferimento tecnologico»

Il «fallimento» dell'Open Innovation e la carica delle Università (e del territorio)
Il «fallimento» dell'Open Innovation e la carica delle Università (e del territorio) Foto: Shutterstock

MILANO - La leggiamo sui titoloni dei giornali, la troviamo risuonare tra gli stand nei grandi eventi dedicati alla tecnologia e alle startup, ce ne parlano i grandi imprenditori milionari che stanno facendo la storia del Web. Open Innovation. E’ diventato un mantra, la via corretta da seguire per chi fa impresa oggi. Aprirsi al futuro, ai nuovi modelli che cambiano, alle opportunità. Farsi contaminare. Che poi vuol dire anche un po’ cambiare la testa ai nostri imprenditori. Un termine, Open Innovation, che ultimamente ha lasciato spazio a un altro di quei concetti che non è facile apprendere subito (soprattutto per le PMI): «trasferimento tecnologico». Che significa sempre aprirsi, ma con l'aiuto di qualcuno di specifico. Ora, aprirci, lo sappiamo fare? No. O, comunque, non ancora. Nonostante una timida crescita rispetto allo scorso anno, in Italia il numero di imprese che adotta sistema di Open Innovation è pari solo al 27% delle imprese. Dato che non sorprende se consideriamo che il nostro tessuto imprenditoriale è costituito dal 95% di imprese familiari, portate avanti spesso «da generazioni» e poco restie al cambiamento.

La scarsa attitudine all’Open Innovation delle imprese è, inoltre, rappresentata dalla loro incapacità di adottare pratiche di Inbound innovation secondo leve strategico-finanziarie come i corporate incubator e accelerator (20%), le acquisizioni (19%) e l’istituzione di Corporate Venture Capital per entrare nell’equity di iniziative imprenditoriali (12%). Pratiche che permetterebbero collaborazioni più durature e profittevoli per entrambi gli attori chiamati in causa. Il vero problema dell’Open Innovation è che, nella maggior parte dei casi, corre il rischio di diventare un’operazione estemporanea e non capace di far evolvere veramente il modello d’impresa verso il digitale. Nella maggior parte dei casi, infatti, le imprese utilizzano le startup come fornitori a cui richiedere un prodotto o un servizio una tantum (54%). La speranza, tuttavia, potrebbe essere rappresentata da quel buon 37% che ha intrapreso partnership in ricerca e sviluppo con startup per la co-creazione di prodotti o servizi. Per il resto, sentiamoci pure persi nella giungla, perchè è così. Solo il 38% delle imprese oggi ha collaborazioni già attive con startup, di cui il 7% da più di tre anni. Ma i dati più preoccupanti sono rappresentati da quell’11% di imprenditori che non sanno neppure se la propria azienda collabori con una startup e dal 27% di imprese che non si dice per nulla interessato alle strategie di Open Innovation.

La luce in fondo al tunnel, tuttavia, potrebbe essere rappresentata dalle Università e dagli incubatori universitari. «E’ necessario stabilire una strategia di medio/lungo termine - ha detto Stefano Mainetti, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Startup Intelligence e CEO di PoliHub -. In questo percorso, a fianco delle imprese, giocano un ruolo rilevante le Università. Opportunamente stimolate dalla tradizionale attivazione di progetti d’innovazione e ricerca applicata, commissionati dalle aziende sulla base di potenziali opportunità concrete di business, oggi con più attenzione rispetto al passato, possono generare startup e spin-off. Questo genere di iniziative risulta spesso in grado di favorire processi di innovazione discontinua per le imprese, potendo far leva sui percorsi di trasferimento tecnologico (e della connessa proprietà intellettuale) messi a punto dagli Atenei a partire dalla ricerca di base. In quest’ambito, gli incubatori universitari costituiscono un importante ambiente appositamente realizzato per ospitare la fase iniziale del ciclo di vita di queste iniziative di business congiunte fra imprese e Università».

Il cosiddetto «trasferimento tecnologico» rappresenta una delle leve più importanti a cui si stanno appellando ultimamente le istituzioni per rendere possibile lo sviluppo tecnologico del Paese. Strategia intrinseca del Piano Industria 4.0 (ora diventato Impresa 4.0) che ha previsto l’istituzione nella Penisola dei cosiddetti Competence Center e ambizione, oggi, degli enti territoriali. Il ritardo della Corte dei Conti nell’approvare il bando per l’assegnazione di fondi relativi ai Competence Center, sta facendo correre le Regioni ai ripari. Lo scorso ottobre Regione Lombardia e Politecnico di Milano hanno messo sul piatto oltre 1 milione di euro per la creazione di un Distretto 4.0, con l’obiettivo proprio di rendere possibile il trasferimento tecnologico dall’Università alle imprese. Stessa strategia dovrebbe seguire la Regione Piemonte, che starebbe avviando un tavolo di lavori con Politecnico e Unione Industriale per la creazione di un hub dedicato alla manifattura (sempre per il medesimo scopo).

L’impressione è che l’intervento universitario e istituzionale sia diventato oramai necessario al latitare delle imprese, soprattutto, in quella terra di mezzo costituita da 188mila PMI che ancora mettono la testa sotto la sabbia e rifiutano la digitalizzazione. Un intervento, però, così localizzato, dove ogni Regione «pensa per sé» non rischia di rendere di nuovo, per l’ennesima volta, il nostro Paese un territorio frastagliato e del tutto disomogeneo?