25 aprile 2024
Aggiornato 12:30
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Il parodosso delle startup italiane: crescono i cervelloni, ma si rimane piccoli (e si fattura poco)

Le startup italiane continuano a mantenere una piccola dimensione, facendo difficoltà a valicare i confini nazionali. Solo l'8,6% ha un fatturato che supera il milione di euro

Il parodosso delle startup italiane: crescono i cervelloni, ma si rimane in Italia (e si fattura poco)
Il parodosso delle startup italiane: crescono i cervelloni, ma si rimane in Italia (e si fattura poco) Foto: Shutterstock

MILANO - L’86% delle startup italiane è in fase seed, con attività imprenditoriali di recente formazione, spesso sostenute dai cosiddetti finanziamenti all’idea, i primi fondi finanziari utilizzati per lanciare un’attività imprenditoriale innovativa. Solo l’8,6% delle startup è costituito da imprese consolidate, con fatturato superiore a 1 milione di euro. Le startup italiane continuano a mantenere una piccola dimensione, facendo difficoltà a valicare i confini nazionali. Anzi, il 36% ancora oggi non esporta i propri prodotti/servizi in altri Paesi al di fuori dell’Italia, aspetto che contribuisce a mantenere le startup in una dimensione ristretta. I dati si basano sulla ricerca condotta da Italia Startup, l’associazione dell’ecosistema startup italiano, in collaborazione con GRS-Ricerca e Strategia.

Team piccoli, anche se cresce l’età media
Molto esigui anche i team che, per il 50% sono costituiti da una componente variabile di 3/9 persone, e ben il 32% da un massimale che raggiunge i 3 professionisti. Solo il 10% delle startup italiane, invece, registra la presenza di un pool di risorse che varia dai 10 ai 20 individui e oltre. Un paradosso, se pensiamo che buona parte degli imprenditori che si inseriscono nei mercati innovativi, cominciano ad avere anche qualche capello bianco, con alle spalle esperienze nei settori di riferimento altamente qualificate (sempre più startupper sfiorano i 40 anni di età). Se da una parte l’economia innovativa vede affacciarsi sul proprio teatro imprenditori in grado di portare il proprio know how all’interno di team giovani, di fatto, la dimensione delle nostre imprese continua a essere molto territoriale.

Crescono gli investimenti seed in Italia: bene, ma non benissimo
Uno dei motivi è rappresentato dal fatto che se negli ultimi anni, nel Belpaese, è diventato potenzialmente più semplice reperire fondi seed, utili per le startup in fase di avviamento, dall’altra è ancora molto complesso rintracciare fondi di round successivi, tendenzialmente più sostanziosi, che permettono alla startup di incrementare e accelerare la crescita. Secondo il Rapporto di ricerca Venture Capital Monitor – VeMTM sulle operazioni di venture capital in Italia nel 2016, l’anno si è chiuso, infatti, con una crescita dei nuovi investimenti in seed (investimento nella primissima fase di sperimentazione dell’idea di impresa) e startup (investimento per l’avvio dell’attività imprenditoriale), con 92 target: +19% rispetto al 2015 (erano 77). Per quanto riguarda le operazioni di seed capital, l’investimento medio è di 0,95 milioni di euro per l’acquisizione di quote del 19%. Nelle operazioni di startup, l’ammontare medio, per il 2016, è stato di 2,7 milioni di euro per rilevare una quota media di partecipazione pari al 21%.

Un’alta formazione
L’aspetto positivo è dato, tuttavia, dall’alta formazione degli imprenditori che compongono i team, il 26,2% dei quali ha concluso un lungo percorso di studi con una laurea di secondo livello. Attitudine confermata dai dati sulla formazione interna: la ricerca fa emergere che vengono organizzati progetti di formazione interna annuale per un periodo superiore alle 40 ore a dipendente, per il 28% delle aziende, mentre il 21% investe dalle 21 alle 30 ore di formazione per i propri dipendenti. «I dati che emergono dalla ricerca riflettono la struttura dell’ecosistema startup italiano, a luci e ombre - commenta Federico Barilli, Segretario Generale di Italia Startup – tra gli aspetti positivi si evidenzia un profilo prevalente dei founder italiani connotato da istruzione elevata, età media intorno ai 40 anni, quindi con esperienza qualificata e con presenza importante di manager/imprenditori di lungo corso, così come un modello prevalente B2B, di buon auspicio per la contaminazione necessaria con il sistema industriale italiano e internazionale. Dall’altro lato si conferma una dimensione media piccola e una scarsa propensione allo sviluppo internazionale, parzialmente compensate da una voglia di intraprendere, di rischiare e di crescere (più che di vendere, di exit) che sono coerenti con lo spirito imprenditoriale tipico di una parte importante del nostro sistema industriale».