Trump come Reagan. Il candidato dello show business travolge l'America
Fino ad oggi - giorno in cui la sfida entra nel vivo - il dibattito elettorale americano è stato dominato da Donald Trump. Che, proprio come Reagan, è ben consapevole di quanto conti lo show business. E che, proprio come Reagan, sa bene che corde toccare per conquistare l'elettorato
WASHINGTON - «Chiedetevi: state meglio di come stavate quattro anni fa? È più facile per voi fare la spesa rispetto a quattro anni fa? C’è più o meno disoccupazione rispetto a quattro anni fa? L’America è rispettata nel mondo come era quattro anni fa? Vi sentite sicuri, pensate che siamo forti come quattro anni fa? [...] Se non siete d’accordo, se pensate che la strada intrapresa negli ultimi quattro anni non sia quella su cui stare nei prossimi quattro anni, potrei suggerirvi un’alternativa». Se vi state chiedendo chi sia il candidato alle primarie americane che ha pronunciato queste parole - se Trump o Cruz, Carson o Rubio -, siete fuori strada. Questa, infatti, è una frase pronunciata da Ronald Reagan nel lontano 1980 in occasione del dibattito contro il rivale Jimmy Carter. In fondo, però, ci siete andati vicino: perché quelle parole sono diventate topiche e senza tempo. E soprattutto, potrebbero facilmente essere attribuite ai candidati repubblicani che oggi, il giorno d'inizio dei caucus in Iowa, cominceranno a sfidarsi per ottenere la nomination tra i conservatori d'America.
La grandezza americana
Se si pensa allo slogan che Donald Trump ha sbandierato dall'inizio della sua campagna - «Make America great again», «Rendiamo di nuovo grande l'America» - subito salta all'occhio come quell'estratto di Reagan sia stato per molte ragioni ispiratore della comunicazione elettorale che è venuta dopo. Ma Trump e Reagan non si assomigliano solo per questo: il vecchio presidente repubblicano, infatti, soleva ripetere che nulla aveva un potere comparabile allo show business, dell'industria dell'intrattenimento. Prima di entrare in politica, era un attore cinematografico, e molto, della tradizione dei western di John Ford e della Hollywood del Dopoguerra, si ritrova anche nella sua campagna elettorale. Reagan si presentava come l'eroe, il depositario della vera essenza dell'«essere americani», l'unico che avrebbe potuto ripristinare la tradizionale grandezza degli Stati Uniti. Era il paladino dell'anti-establishment che avrebbe salvato il Paese dalla recessione.
L'importanza dello show
Trump deve aver appreso molto della lezione del suo predecessore. Nessun candidato come lui è consapevole dello straordinario potere dei media, nessuno più di lui è esperto delle dinamiche della comunicazione e capace di cavalcarle a proprio vantaggio. Cresciuto a pane, dollari e tv, la sua campagna è stata, fino ad ora, un grande reality show. I suoi slogan da spot pubblicitario si sono tatuati nella memoria dell'elettorato, le sue uscite strampalate, apparentemente caotiche ma in realtà argutamente calibrate, hanno costruito pian piano l'immagine di candidato fuori dal coro, anti-establishment; il suo costante sforamento dal «politicamente corretto» ha sedimentato l'impressione che, dopo l'eccessiva prudenza di Obama (disprezzata dai repubblicani), solo uno come Trump potrà «risvegliare» la potenza americana. «Vi sentite sicuri, pensate che siamo forti come quattro anni fa?», chiedeva Reagan giocando sulle debolezze dell'avversario. «Rendiamo l'America di nuovo grande», dice Trump, utilizzando esattamente lo stesso meccanismo retorico.
Somiglianze
Se Reagan si presentava come l'eroe - o il cowboy - che avrebbe combattuto e vinto la sfida della recessione, Trump, nel suo show elettorale, si è rappresentato come colui che farà pulizia nella società americana, ripulendola dallo «sporco» degli immigrati. Via i musulmani, via i messicani, e l'America sarà di nuovo se stessa. Quello dell'immigrazione non era un tema caldo ai tempi del 40esimo presidente Usa, ma le somiglianze sono evidenti. Ancora più evidente è la vicinanza tra i due in politica estera. Ai tempi di Reagan, Carter era accusato di essere responsabile di un disastro medio-orientale concretizzatosi nel regime komeinista e nella crisi degli ostaggi americani a Teheran. Intanto, cresceva la paura per la minaccia sovietica. Oggi, a Obama si imputa di aver sgretolato la supremazia americana in Medio Oriente e di non aver saputo porre un freno al fondamentalismo islamico, mentre Putin acquista sempre più forza nel contesto geopolitico internazionale. Come dire, un déjà-vu.
E ora arriva il bello
Trump rappresenta oggi ciò che Reagan rappresentava allora: il candidato dello show business che, proprio perché di spettacolo e media ne mastica, sa far presa sull'elettorato giocando sul suo immaginario, sulle sue proiezioni e sulle sue paure. E soprattutto, l'unico abbastanza forte e abbastanza coraggioso da andare contro all'establishment responsabile della rovina dell'America. In più, l'attuale candidato ha un'arma che Reagan non aveva: non ha bisogno di sponsor. Fino a qui, Trump è forse il vincitore della prima «fase» della battaglia: e il non presentarsi all'ultimo dibattito repubblicano è stato il colpo da maestro. Ora, però, con l'inizio delle primarie arriva il bello. E c'è da scommettere che quello strambo candidato dal ridicolo parrucchino ossigenato e apparentemente sconclusionato continuerà il suo spettacolo, ben consapevole, come chiunque navighi nello show business, della prima e più importante regola del gioco: non smettere mai di stupire. Pur continuando a dire ciò che l'audience - che siano spettatori o elettori poco importa - vuole sentirsi dire.
- 29/10/2017 Hillary Clinton «pagava» investigatori privati affinché incastrassero Trump
- 05/05/2017 Usa, Clinton parla della sconfitta: ora faccio parte della resistenza
- 05/04/2017 Usa, Trump spiato dal team di Obama? Ecco chi ci sarebbe dietro
- 23/01/2017 Prodi su Trump: «America first? Preoccupante, o l'Europa sta unita o finiamo male»