19 aprile 2024
Aggiornato 11:00
Non potrà diventare presidente, ma sarà «sopra il presidente»

Birmania, l'icona dei diritti umani Aung San Suu Kyi vola verso la vittoria

A 70 anni, questa potrebbe essere l'occasione per Aung San Suu Kyi di realizzare quella trasformazione democratica di Myanmar, per la quale ha fatto una quindicina d'anni di arresti domiciliari

ROMA - A 70 anni, questa potrebbe essere l'occasione per Aung San Suu Kyi di realizzare quella trasformazione democratica di Myanmar, per la quale ha fatto una quindicina d'anni di arresti domiciliari. Alle elezioni di ieri, oltre l'80 per cento dei birmani s'è recato entusiasticamente alle urne e i risultati parrebbero premiare la sua Lega nazionale per la democrazia.

25 anni di ritardo
Se sarà confermato, l'arrivo al potere di Aung San Suu Kyi giungerà con 25 anni di ritardo. La «Lady» aveva vinto le elezioni già nel 1990 e anche allora era agli arresti domiciliari. Con un quarto di secolo in più sulle spalle e il riconoscimento internazionale, dopo il premio Nobel per la pace, la figlia del fondatore della Birmania indipendente si troverà a dover formare un governo, probabilmente anche facendo compromessi con chi è sostenuto dai quei militari che hanno schiacciato per decenni le speranze di libertà del suo popolo.

Dichiarazioni morbide e nette
Nei giorni scorsi «Amay» («Madre») Suu ha alternato dichiarazioni più morbide a prese di posizione più nette, come quando ha chiarito che sarà numero uno del governo, ma «sopra il presidente» a dispetto della norma costituzionale. Una presa di posizione motivata dal fatto che la leader democratica non può diventare presidente, in base alla costituzione fatta approvare dai militari, che impedisce a chi ha un congiunto - coniuge o figli - con cittadinanza straniera, e lei ha avuto un marito e ha due figli britannici, di ascendere alla più alta carica del paese.

Occasione
«Questa elezione è una grande chance di cambiamento per il nostro paese. Il genere di cambiamento che non arriva che una volta nella storia», ha confidato la premio Nobel in un incontro a Yangon qualche giorno fa. E la «grande speranza di democrazia» è incarnata da lei, ha sottolineato Phil Robertson, rappresentante di Human Rights Watch. D'altronde, a dimostrarlo, è la folla che ha circondato festosa la sede del suo partito immediatamente dopo il voto. E risultati elettorali che potrebbero sancire una vittoria schiacciante.

Responsabilità enorme
E' una responsabilità enorme, che in un primo momento Aung San Suu Kyi non aveva cercato. Dopo l'uccisione del padre, il generale Aung San, assassinato quando lei aveva due anni nel 1947, la prima parte della sua vita s'è svolta in esilio. Prima in India, poi in Gran Bretagna. Ha studiato a Oxford, prendendo una laurea prestigiosa, e lì s'è sposata con un professore specialista di Tibet, Michael Aris, morto senza che potesse ricevere l'ultimo saluto dalla moglie nel 1999 per un cancro. Da Aris ha avuto due figli.

Tanti ostacoli
La decisione di tornare in Birmania è solo del 1988. Volata al capezzale della madre, si ritrovò nel pieno di una rivolta contro la giunta militare repressa nel sangue. «Non potevo, come figlia di mio padre, restare indifferente a tutto quello che stava accadendo», ha detto durante il suo primo storico discorso alla pagoda Shwedagon, nel 1988. Dopo una prima apertura, con il permesso di costituire la Lega nazionale per la democrazia, il regime reagì mettendola agli arresti domiciliari. Ciononostante, Aung San Suu Kyi riuscì a vincere le elezioni del 1990, ma la giunta militare non riconobbe i risultati. Iniziò così un periodo lungo di detenzione domiciliare, con l'assenza che contribuiva a renderla un mito ancor più della presenza. La premio Nobel (e premio Sakharov), dal canto suo, non si piegò e le rare visite di emissari autorizzate erano occasioni per rafforzare la sua figura.

La liberazione
Bisognerà aspettare il 2010 per rivederla definitivamente libera. Nel 2012 fu eletta in un parlamento che, per un quarto, è nominato direttamente dei militari. Era ormai una Aung San Suu Kyi diversa. Capace di giocare la partita politica con maggiore pragmatismo. In questa cornice s'inquadrano alcune posizioni che hanno stupito i sostenitori occidentali della prima ora, come la «timidezza» sul tema delle sorti della minoranza musulmana Rohingya o la strana alleanza con Shwe Mann, ex presidente del partito filo-militari USDP, messo fuori in estate dalla formazione al potere.

Il difficile viene ora
La prova del fuoco della Aung San Suu Kyi politica viene ora. L'icona dei diritti umani si troverà a dover confrontarsi con la quotidianità del governo, con la necessità di trattare anche con chi l'ha tenuta prigioniera lei e il suo paese per decenni. E' una Aung sorridente, ma prudente quella che ha cercato oggi di placare l'entusiasmo dei suoi sostenitori, dopo il voto di ieri che dovrebbe sancire la vittoria ormai certa della sua Lega nazionale per la democrazia. La leader democratica sa che il difficile viene ora: a seconda della portata della vittoria, dovrà trattare con il partito sostenuto dall'ex giunta militare, Usdp, e con le minoranze etniche per riuscire a formare un governo e per cambiare la Costituzione che le impedisce di diventare presidente. Con un'ulteriore incognita: cosa faranno i militari? «Amay» («Madre») Suu ha lanciato un invito alla prudenza. «E' troppo presto», ha detto affacciandosi al balcone del quartier generale della sua Lega nazionale per la democrazia, aggiungendo che «la gente ha un'idea dei risultati, anche se io non lo dico». Poi ha continuato: "Non è ancora il momento di felicitarsi con i nostri candidati», anche se «noi pensiamo di aver vinto».

Non irritare i militari
La prudenza è giustificata non solo dai precedenti - la vittoria scippata nel 1990, dopo la quale la figlia del fondatore della Birmania indipendente fu costretta a 15 anni di arresti domiciliari, le elezioni truccate del passato - ma anche dalla necessità di non irritare i militari. Perché, sebbene questi abbiano formalmente lasciato le leve della politica e ancora ieri lo stato maggiore abbia assicurato che verrà rispettata la volontà popolare, l'ex giunta mantiene un forte grip sul potere reale nel Paese. In primo luogo i militari, in base alla Costituzione da loro stessi voluta, nominano direttamente il 25 per cento dei parlamentari, a cui vanno aggiunti quelli che l'USDP riuscirà a ottenere. In secondo luogo, il loro potere sull'economia resta fortissimo. Infine, hanno dimostrato in passato di non farsi alcuno scrupolo a ricorrere alla forza. Quindi Aung San Suu Kyi, pur avendoli sfidati nei giorni scorsi sostenendo che a dispetto della Costituzione lei sarà "sopra al presidente", sa che con i generali dovrà in qualche modo ragionare. E, comunque, dovrà ottenere più del 67 per cento dei voti se vuole governare da sola, altrimenti dovrà formare una maggioranza facendo leva sull'USDP o su partiti etnici. Portare pazienza, quindi, è la parola d'ordine. Non solo fino alla pubblicazione dei risultati, che dotrebbe avvenire già domani. Ma per quello che potrebbe accadere dopo. Il nuovo parlamento s'insedierà a febbraio. Ci sono dunque tre mesi e mezzi, nei quali potrebbe aprirsi, se la Lega per la democrazia non avrà numeri solidi, una partita negoziale complessa e delicata dagli esiti incerti.

Mediazione
Probabilmente la leader democratica dovrà porsi sul terreno della mediazione, dovrà cercare di ricucire il tessuto di una politica nazionale frammentata. Oltre all'interlocuzione coi militari e con l'USDP, dovrà anche ragionare con i 91 partiti delle minoranze etniche, in Paese dove sono accesi conflitti identitari sanguinosi che la recente tregua elettorale ha solo sospeso. La storia di famiglia di Aung San Suu Kyi è legata anche alla promozione dell'integrazione, ma non sarà facile. Nel Paese è presente una forte componente nazionalista buddhista, che si scaglia contro le minoranze islamiche con una certa veemenza. Per di più, la decisione della Lega nazionale per la democrazia di correre dappertutto per le elezioni, anche negli orticelli etnici, ha preoccupato e irritato questi partitini. Non per nulla, oggi, Aung San Suu Kyi ha voluto rassicurarli: "Ci piacerebbe continuare la nostra strada con buona volontà per il paese e amorevole gentilezza per il popolo, senza alcuna discriminazione".

(Con fonte Askanews)