28 agosto 2025
Aggiornato 05:30
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Attesa e diffidenza per il discorso di Obama al Cairo

Annunciato «grande discorso» a Islam per rilancio strategia pace

IL CAIRO - Diffidenza, speranza e attesa. Contrastanti e intrecciati, sono questi gli stati d'animo che attraversano l'opinione pubblica araba all'indomani dell'annuncio dell'imminente visita del presidente degli Stati uniti d'America, Barack Obama, prevista per il prossimo 4 giugno al Cairo.

L'amministrazione Obama ha scelto la capitale egiziana, preferendola a Istanbul come inizialmente lasciato intendere, in qualità di palco privilegiato da cui presentare al mondo la nuova visione politica americana in Medio oriente. E soprattutto da cui rivolgere ai paesi arabi e musulmani un messaggio di distensione e apertura, dopo l'era di George Bush junior, conclusasi in concomitanza dell'operazione militare israeliana Piombo fuso nella Striscia di Gaza.

Dal punto di vista egiziano, la scelta di Washington non fa che rafforzare la posizione del Cairo sulla scena internazionale e i legami fra le due capitali.

A 30 anni dalla storica visita del presidente egiziano Anwar El Sadat a Gerusalemme, cui fece seguito la firma del trattato di pace fra Egitto e Israele, la repubblica araba nordafricana conferma così il proprio ruolo di «valvola di sicurezza» nella regione, come definita nel 2004 dalla precedente amministrazione americana.

Mediatore accreditato presso entrambe le parti nel processo di pace fra palestinesi e israeliani, interlocutore e alleato politico privilegiato per Stati uniti e Unione europea, membro di primo piano della Lega degli Stati arabi, l'Egitto non ha mai fatto mancare agli Stati uniti il proprio sostegno, nonostante frequenti prese di distanza - formali, non sostanziali - dalla politica estera statunitense da parte della presidenza di Hosni Mubarak, in particolar modo dopo l'11 settembre 2001. Nei fatti, da un punto di vista strettamente militare, Il Cairo non ha rifiutato agli Stati uniti d'America il supporto delle proprie truppe in Kuwait, nel 1990, per far fronte all'invasione irachena - anche a costo di costringere i propri soldati a combattere contro altri egiziani, emigrati in Iraq - né in Bosnia, Somalia, Timor Est e nelle missioni di pace nel Sahara meridionale.

Dopo gli attentati alle Torri gemelle di New York, Il Cairo ha collaborato fattivamente alle indagini - diventando anche meta di operazioni di rendition - sul terrorismo internazionale. Infine, più di recente, l'Egitto ha condannato apertamente le scelte dell'Hezbollah libanese, nell'estate del 2006, e di quella parte di resistenza palestinese che fa capo ad Hamas, attirandosi le critiche di un'ampia fetta di opinione pubblica araba, e non solo. Fino a rischiare di passare per alleato di Israele contro i fratelli palestinesi.

Ma pronunciando il proprio discorso al Cairo, il presidente Obama ufficializzerà anche il ruolo dell'Egitto in seno ai paesi a maggioranza islamica, in particolar modo sunnita. A maggior ragione se avesse un seguito, nei prossimi giorni, l'invito rivolto a Obama dalle massime cariche della moschea universitaria di Al Azhar affinché il presidente tenga il proprio discorso presso l'ateneo punto di riferimento della Sunna mondiale.

Per Obama, una scelta del genere potrebbe rivelarsi insidiosa, facendo scivolare troppo bruscamente la sua visita dal piano politico a quello religioso. Una situazione opposta e speculare rispetto a quella del Santo padre in Terra santa. Il viaggio di Benedetto XVI, già di per sé delicato in termini di dialogo interreligioso, potrebbe avere implicazioni politiche nel caso in cui il Santo padre fosse spinto a prendere apertamente una posizione rispetto alla questione israelo-palestinese.

Ho dei dubbi sul fatto che il presidente americano accetti di parlare ad Al Azhar - sostiene Rashwan Diaa, analista politico del Centro studi politici Ahram del Cairo, intervistato da Apcom nella capitale egiziana - anche se vorrei sottolineare che si tratta di un'istituzione unica nel panorama dell'Islam, con un peso scientifico e politico che trascende la dimensione religiosa sunnita». Per questo, secondo il ricercatore, esperto di movimenti islamisti, il rischio per Obama di «entrare troppo in questioni religiose non sussisterebbe».

Rimane il fatto che «nello scegliere Il Cairo come teatro del proprio discorso - aggiunge Rashwan - l'amministrazione americana ha ben presente le implicazioni politico-religiose. Istanbul è troppo vicina all'Europa per essere la sede di un discorso sul Medio oriente e non è coinvolta nel processo di pace come l'Egitto. Quindi, Non sono sorpreso dalla scelta». Poi prosegue: «Nessuno fino ad ora può dire di aver capito le linee guida in politica estera di questo presidente, mi aspetto messaggi chiari e forti rivolti all'Iran e alla Siria. Quello che intravedo è una manovra per rafforzare i rapporti con gli alleati moderati, recuperare quello con l'Arabia saudita ed esercitare una pressione su Teheran pur tendendo la mano». Intanto, le reazioni della Fratellanza musulmana - movimento islamista nato in Egitto nel 1928 e unica vera opposizione politica al regime di Hosni Mubarak - alla scelta dell'amministrazione americana non sono favorevoli: la Guida suprema della confraternita, Maadi El Akif, parla di «nuova tattica per colpire la regione e dividerla in piccoli Stati». E dall'Iran giungono segnali contrastanti. Fino ad ora Teheran non ha risposto positivamente ai segnali di apertura della Casa bianca, anche se è di oggi il rilascio della giornalista americana Roxana Saberi, di origini iraniane e doppia cittadinanza Usa-Iran, accusata di spionaggio.

Prima del 4 giugno, Obama vedrà a Washington il neo-primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, oggi in visita al Cairo. «Non credo che, rispetto all'era Bush, si affievolirà il sostegno a Israele - conclude Diaa Rashwan senza esitazioni - nonostante il no secco della nuova amministrazione israeliana, espresso con forza ieri, alla politica dei due Stati».