18 aprile 2024
Aggiornato 14:00
Già persi 20 milioni di euro

L’anguria italiana rischia il «crac»

Tra giugno e luglio le vendite di cocomeri sono calate di oltre il 25 per cento, con punte del 70 per cento nel Mezzogiorno. Pesano gli effetti dell’allarme E.coli sui consumi di ortofrutta e la concorrenza della Grecia

ROMA - Nella crisi generale dell’ortofrutta finisce anche il prodotto «simbolo» dell’estate. Non solo albicocche e susine, cetrioli e melanzane, pesche e nettarine: il crollo verticale dei consumi ha investito in pieno anche l’anguria «made in Italy», travolta dagli effetti del «batterio killer» e dall’importazione selvaggia dai paesi del Mediterraneo, in particolare dalla Grecia. La conseguenza più immediata è stata un calo complessivo delle vendite tra giugno e luglio superiore al 25 per cento, ma con punte del 70 per cento al Sud. Soprattutto in quelle regioni a forte produzione di cocomeri come la Puglia e la Calabria. Lo afferma la Cia-Confederazione italiana agricoltori.
In questo momento l’anguria dovrebbe essere raccolta e venduta senza sosta -spiega la Cia- perché siamo nel pieno della campagna, e invece non si riesce a collocarla a un prezzo minimamente remunerativo per i produttori. Le aziende agricole sono alle strette: da un lato si scontrano con la flessione decisa dei consumi di frutta, un «regalo» della psicosi da Escherichia coli, che solo a luglio ha portato a una contrazione dei prezzi all’origine del 31,1 per cento congiunturale (ma i cocomeri hanno perso il 46 per cento). Dall’altro, subiscono la concorrenza greca che è davvero difficile da sostenere.

Infatti -osserva la Cia- la crisi economica che sta attraversando la Grecia ha generato l’immissione anche sui mercati italiani di prodotti agricoli «made in Atene» a prezzi irrisori. E l’esempio più lampante è proprio quello dei cocomeri, che vengono venduti all’ingrosso a meno di 10 centesimi al chilo franco-arrivo. Per poi arrivare sulle tavole a 60-70 centesimi al Kg. Di conseguenza, la scelta drammatica che si pone oggi agli agricoltori italiani è tra vendere il prodotto assolutamente sottocosto o lasciarlo marcire nei campi, per risparmiare almeno le spese di raccolta.
Una scelta non semplice, considerando i costi che ci sono dietro -ricorda la Cia-. Se si considera che l’investimento ad ettaro per la produzione di angurie è pari a 7 mila euro (tra la preparazione della terra, le piantine, i trattamenti fitosanitari, le irrigazioni continue, la manodopera) e che la resa produttiva, sempre per ettaro, è di 300 quintali, si capisce bene che con un guadagno di 10-15 centesimi al chilo non si coprono neppure la metà delle spese sostenute.

Ecco perché bisogna correre ai ripari. L’emergenza «angurie invendute» ha già causato danni per quasi 20 milioni di euro solo ai produttori agricoli e per circa 45 milioni se si considera tutto l’indotto. In più, il blocco del comparto mette a rischio anche la manodopera impiegata ogni anno per la raccolta dei cocomeri, che storicamente vede coinvolti migliaia di lavoratori extracomunitari.
La situazione è drammatica e sono necessari provvedimenti urgenti -incalza la Cia-. Innanzitutto è necessario chiedere all’Europa di allargare le misure di sostegno per gli agricoltori danneggiati dal «batterio killer», visto che i produttori di ortaggi e frutta estivi pagano ancora gli effetti di quella psicosi. Inoltre, chiediamo l’immediata apertura di un tavolo al ministero delle Politiche agricole, in modo da affrontare con interventi concreti una situazione gravissima che rischia di mandare sul lastrico centinaia di agricoltori in tutt’Italia.