25 aprile 2024
Aggiornato 06:00
Riforma dell'Ocm vino

Vecchioni: «I vini non sono giocattoli da smontare e rimontare»

«I produttori devono sapere se i loro sforzi per produrre eccellenza hanno un senso, oppure no»

ROMA - «A questo punto bisogna essere chiari. I nostri produttori di vino, dalle cui cantine viene una delle voci più importanti dell’export agroalimentare italiano, devono sapere se i loro sforzi per produrre eccellenza hanno un senso, oppure no». Il presidente di Confagricoltura, Federico Vecchioni, lancia la provocazione da Perugia, tre giorni prima che sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea venga pubblicato il Regolamento comunitario sulle pratiche enologiche, nell’ambito della riforma dell’Ocm vino in vigore del prossimo primo agosto.

Fra i nuovi metodi ammessi ci sono la dealcolazione e l’uso di tecniche, sinora ritenute improprie (membrane), per acidificare e deacidificare, due processi che consentono di modificare pesantemente la natura dei vini. La dealcolazione, infatti, dà modo di sottrarre alcol al vino, seppur lasciandone inalterata la struttura in termini di sapore e profumo. Con l’altra operazione, in pratica, si scompone e poi si ricostruisce un vino, intervenendo per modificarne alcune caratteristiche. Due pratiche dettate dalla linea di mercato inaugurata dalla riforma che porta la firma del Commissario all’agricoltura Ue, Mariann Fischer Boel, tesa a dare maggior elasticità al settore, perché possa più facilmente riposizionarsi sulle tendenze di volta in volta espresse dai consumatori.

«La linea di Confagricoltura è quella dell’innovazione - spiega Vecchioni -siamo favorevoli ad investire in nuovi prodotti, ristrutturare i nostri vigneti, promuovere i nostri vini aprendo nuovi mercati, ma qui ci troviamo di fronte ad un confine labile. Innanzitutto non mi risulta ci siano procedure standard per applicare queste tecniche, quindi, per la dealcolazione, la domanda è: che fine fa l’alcol sottratto al vino, non c’è il rischio venga destinato ad usi, diciamo così, impropri? E, mi chiedo: scomporre e riassemblare un vino per ridurne o aumentarne l’acidità non può dar modo, in corso d’opera, di correggerne gli eventuali troppi difetti, oltre che le stesse caratteristiche? Insomma cosa c’è ancora di davvero naturale in questo prodotto smontato e rimontato? Cosa resta delle peculiarità che il terreno, il «terroir» per dirla alla francese, trasferisce nel vino?»

Di sicuro i concetti di tipico e tradizionale nulla hanno a che fare con questi passaggi tecnici, ma anche i paletti delle garanzie fissate dai regolamenti appaiono minimi, ridotti ad un «range» di modifica che non superi i due gradi alcolici.

Tutto ciò dopo il tentativo di Bruxelles di dar via libera ai rosè ottenuti mischiando vini bianchi con rossi, ma, ancor di più, dopo la vicenda degli 1,3 milioni di litri di Brunello ed altri vini Doc e Docg declassati perché non prodotti al 100% con uve indicate dai rispettivi disciplinari. Un caso, come riportano gli organi di stampa, per cui la Procura di Siena avrebbe rilevato una «carenza di vigilanza» da parte del Consorzio di tutela del Brunello.

Altri fuochi si accendono nelle terre del Barbera, dove è in corso un forte dibattito tra «fondamentalisti» e «innovatori» sull’opportunità di aprire il disciplinare, per una quota del 10%, a vitigni non autoctoni, come cabernet o merlot, mentre oggi questa quota è riservata a grignolino, freisa e dolcetto. «I più recenti dati sull’export vitivinicolo nazionale, relativi al primo trimestre dell’anno, indicano una flessione di oltre il 9% dei valori e di una risicata tenuta a -0,3% dei volumi - fa notare il presidente di Confagricoltura - e quindi è urgente trovare nuovo appeal sui maggiori mercati esteri di riferimento e, soprattutto, su quelli che si stanno aprendo ora, ma ci vogliono idee chiare. Da una parte le denominazioni sono certamente valide per la nostra struttura produttiva ed il loro valore per il settore è fondamentale, non solo sotto il profilo economico. Dall’altra il sistema va rivisitato, perfezionato e i disciplinari non possono essere considerati dogmi immodificabili. Un conto però - conclude Vecchioni - è capire che certi strumenti non possono diventare una camicia di forza per gli imprenditori, un altro è inserire nelle regole elementi di competizione selvaggia che, ancora una volta, possono andare a penalizzare chi investe nell’eccellenza, come fanno da decenni i vitivinicoltori italiani».