Licenziamento per superamento del “periodo di comporto” per danno alla salute
Il dipendente che lamenta un danno alla salute deve dimostrare il nesso di causalità dell’ambiente di lavoro con le mansioni espletate
Con sentenza del 3 novembre 2008, n. 26378 la Sezione lavoro della Corte di Cassazione, pur ricordando che l’articolo 2087 del codice civile obbliga il datore di lavoro a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, ha confermato il licenziamento inflitto dall’azienda al lavoratore per superamento del «periodo di comporto», affermando che il dipendente che lamenta un danno alla salute deve dimostrare il nesso di causalità della nocività dell’ambiente di lavoro con le mansioni espletate.
Sia per il Tribunale che per la Corte di Appello nessun nesso di causalità poteva ritenersi sussistente tra l'infortunio e la patologia cardiaca del dipendente, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso tra il verificarsi del primo e l'insorgere della seconda e la evidente estraneità di una contusione all'emitorace sinistro rispetto all'eziopatogenesi di una cardiopatia arterosclerotica con infarto miocardio.
Per la Corte di Cassazione l'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Pertanto la Corte di Cassazione ha confermato che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
Fatto e diritto
Un dipendente aveva adito il Tribunale in funzione di Giudice del lavoro, esponendo che aveva lavorato alle dipendenze della azienda, con inquadramento nel 5° livello del CCNL settore «terziario»; che aveva svolto mansioni di addetto allo scarico ed al carico delle merci, eseguendo tali operazioni per «circa 6-700 volte al giorno e con pacchi di peso dai 50 ai 70 Kg ciascuno», in un ambiente di lavoro costituito da un capannone «senza luci che potevano aprirsi, con conseguente temperatura di 40 gradi d'estate e molto fredda di inverno»; che non era mai stato visitato dal medico competente ex artt. 16 e 17 D.L.vo 626/94, né aveva mai ricevuto in dotazione «attrezzi previsti dalla legge per prevenire i rischi lavorativi».
Esponeva anche che l'Azienda non aveva predisposto neppure il prescritto libretto sanitario.
La subentrata società lo aveva licenziato per avvenuto superamento del periodo di comporto, previsto dall'art. 93 del CCNL,
Il dipendente aveva impugnato l'atto di recesso e la nuova azienda si era limitata a ribadire che il licenziamento era motivato dall'avvenuto superamento del periodo di comporto, pari a 180 giorni nell'anno solare, con ciò violando il disposto dell'art. 2 della legge 604/66.
Il dipendente tra le molte lamentele, aveva anche esposto al giudice che, mentre era intento ad aprire «il pesantissimo cancello d'ingresso del deposito, era stato colpito al petto dallo stesso chiusosi improvvisamente e poi costretto, nonostante i forti dolori al petto, a scaricare il camion arrivato e la società non aveva provveduto ai rituali adempimenti di legge. Inoltre dopo due giorni era stato costretto a ricoverarsi di propria iniziativa, con conseguente diagnosi di «contusione all'emitorace sinistro»; che, dovendo il trauma subito in tale occasione qualificarsi quale infortunio sul lavoro, le relative assenze non potevano computarsi ai fini del comporto, atteso il disposto della dichiarazione a verbale dell'art. 95 del CCNL; che «successivamente ad un periodo di malattia e di ripresa della suddetta attività lavorativa, era stato ricoverato d'urgenza presso il presidio ospedaliero ... con diagnosi di angina pectoris e dimesso in data omissis»: che, «ancora una volta ripresa la stessa attività lavorativa dopo un periodo di malattia, in data omissis subiva un nuovo ricovero ospedaliero con dimissioni in data omissis e diagnosi definitiva di «cardiopatia arterosclerotica con infarto miocardico acuto della parte inferiore»; che in data omissis subiva un nuovo ricovero ospedaliero, con dimissioni del omissis, sicché «dopo un periodo di malattia rientrava al lavoro e veniva adibito sempre alle stesse mansioni».
Per quanto sopra il dipendente impugnava la illegittimità del licenziamento, chiedendo che, in riforma della sentenza impugnata venisse dichiarato nullo, annullabile, illegittimo o inefficace il provvedimento di licenziamento comunicatogli e per l'effetto che doveva ordinarsi al datore di lavoro di reintegrarlo nel posto di lavoro, con condanna al risarcimento del c.d. danno biologico; in via subordinata chiedeva che venisse ordinata all’appellata di riassumerlo, con condanna, in difetto, al risarcimento dei danni commisurati a sei mensilità.
L’azienda contestava la fondatezza delle domande, con articolate argomentazioni, ma il Tribunale adito rigettava la domanda. E così anche la Corte di appello. Entrambe avevano escluso il nesso di causalità tra l'infortunio del omissis e la lamentata patologia cardiaca, e tra tale ultima infermità e l'ambiente di lavoro, evidenziando, al contempo, come dai prodotti certificati medici emergessero oltre 180 assenze nell'anno antecedente al 10 agosto 2000, data di riferimento della lettera di licenziamento, con superamento del periodo di comporto.
Allora il datore di lavoro è ricorso alla Corte di Cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
Per la Corte di Cassazione la Corte di Appello, nel confermare la decisione del primo Giudice, aveva rilevato, tra l'altro, che nessun nesso di causalità poteva ritenersi sussistente tra l'infortunio e la patologia cardiaca, atteso il lungo lasso di tempo trascorso tra il verificarsi del primo e l'insorgere della seconda e la evidente estraneità di una contusione all'emitorace sinistro rispetto all'eziopatogenesi di una cardiopatia arterosclerotica con infarto miocardico; che neppure era risultato provato alcun nesso di causalità tra tale ultima infermità e l'ambiente di lavoro, atteso che le deduzioni attoree circa la nocività di quest'ultimo non avevano trovato alcun riscontro, mentre dalla documentazione medica prodotta emergevano, per converso, fattori quali il tabagismo e l'ipertensione che notoriamente erano rilevanti fattori causali; che il periodo di comporto era stato senz'altro superato, poiché dai certificati medici allegati si evincevano oltre 180 assenze nell'anno antecedentemente alla data di riferimento della lettera di licenziamento.
Per la Corte di Cassazione l'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Per la Corte di Cassazione ne consegue che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
Corte di Cassazione - Sezione lavoro - sentenza del 3 novembre 2008, n. 26378
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