Una busta della spesa sempre meno «Made in Italy»
Centinaia di storici marchi agroalimetari italiani sono ora in mano a grandi gruppi stranieri. Il consumatore crede di acquistare italiano, invece il profitto e il valore aggiunto derivato dalla sua spesa finisce in tasche straniere
Algida, Danone, Carapelli, Bertolli, Fattorie Osella , solo per citare alcuni marchi, tra i centinaia, che un tempo erano italiani ora sono di proprietà estera. Questi ed altri prodotti finiscono puntualmente nella busta della spesa degli italiani, anzi coprono la maggioranza del mercato. Un mercato fatto in Italia ma che distribuisce valore oltre confine. Si può stimare come, nel paniere medio degli acquisti alimentari di una famiglia italiana che usa approvvigionarsi nella grande distribuzione organizzata, circa l’80 per cento del valore generato dall’acquisto non rimanga in Italia.
Lo sostiene la Cia-Confederazione italiana agricoltori preoccupata per l’indebolimento del «Made in Italy» agroalimentare e per difficoltà del settore agricolo nel suo complesso.
Non solo -prosegue la Cia- gli agricoltori sono stretti tra costi di gestione e produzione elevatissimi e vendono sottocosto , ma i prezzi al consumo degli alimenti crescono senza freni, ignorando ogni logica di distribuzione del ricavo.
Un trend -secondo la Cia- molto pericoloso. Se di un prodotto venduto al consumatore finale ad un euro, la quota che rimane all’agricoltore non arriva al 5 per cento, significa che il meccanismo non è equo e sostenibile e l’agricoltore è destinato a fallire. Altra problematica -prosegue la Cia- sta nel mercato: se la grande distribuzione vende troppa carne, frutta, verdura e confetture straniere si restringe paurosamente la possibilità di collocare il prodotto italiano sugli scaffali.
Eccezione fatta per il comparto del vino che si difende tanto nell’export quanto sul mercato interno, nel resto del settore agricolo e agroalimentare nel suo complesso, si registrano situazioni di crisi.
Nel comparto degli oli, che rappresenta un fenomeno eclatante, assistiamo al fatto che il mercato italiano, per circa il 78 per cento, è fatto da marchi controllati dalle grandi industrie, con un gruppo spagnolo «Sos Cuetara», che controlla addirittura oltre il 60 per cento del mercato mondiale di questo specifico segmento. L’unica realtà veramente consistente in Italia è quella saldamente nella mani della famiglia Monini di Spoleto. Eppure -spiega la Cia- il nostro Paese è un grande produttore di oli di qualità, con una produzione media che si attesta sempre attorno alle 600 mila tonnellate. Una quantità che può sostenere la domanda interna. Invece, i nostri produttori, di fatto, sono costretti a vendere l’olio a prezzi bassi ad imprese estere, e quando decidono di affrontare il mercato da soli ,con le loro bottiglie, lo trovano saturato proprio dagli stessi soggetti a cui non hanno voluto conferire il prodotto. Un mercato chiuso -rivela la Cia- da marchi affermati che sono più competitivi sul prezzo ( anche perché utilizzano generalmente miscele di prodotto meno costoso: spagnolo, greco, tunisino e italiano) insomma: una spirale perversa che penalizza gli olivicoltori.
Stesso discorso per molta ortofrutta, frutta spagnola presente sul mercato italiano perché meno costosa (anche perché loro considerano spagnola anche quella in transito dall’Africa).
Non va meglio per le carni, con bistecche e fettine francesi confezionate, che spopolano dentro i frigoriferi dei supermercati e con 2 prosciutti venduti su 3, che arrivano, principalmente, dall’Est europeo.
Anche per il latte e i suoi derivati è una lotta. Yogurt, formaggi filanti e dietetici esteri finiscono puntualmente nelle case degli italiani. Reggono abbastanza bene, nelle vendite, il latte fresco italiano, i formaggi di particolare pregio (parmigiano e grana) e qualche mozzarella.
Nelle bevande generiche il «made in italy» non arriva al 4 per cento del mercato, con i prodotti «Coca Cola» che fanno la parte del leone. La birra italiana è «sparita» dal mercato (la Peroni non è italiana ma della sudafricana sab-miller). Sui succhi di frutta si tiene botta. Nelle confetture e scatolami c’è dietro veramente poca Italia. Tra i pochi portabandiera si può citare «Conserve Italia».
Per la pasta reggono 4/5 marchi storici italiani, ma il loro approvvigionamento di materie prime avviene sostanzialmente dall’estero (dove il frumento è salito alle stelle), da qui il prezzo che è lievitato e gli agricoltori italiani, che anche in questo caso, non hanno ottenuto soddisfazioni.
Quindi -sintetizza la Cia- crescono i prezzi degli alimenti, i redditi delle famiglie soffrono, l’agricoltura e l’agroalimentare italiano sono, sostanzialmente, in crisi. E poi, i ricavi e il valore aggiunto finiscono altrove.
Assistiamo in queste ore alla vicenda «Alitalia», dove si opera nel tentativo di salvaguardare la compagnia di bandiera, ma l’agricoltura italiana e il «Made in Italy» agroalimentare che hanno contribuito a rendere il nostro Paese grande nel mondo, non vola più da tempo. Il Governo -conclude la Cia- deve rendersi conto che, per il settore, serve un intervento poderoso che possa invertire la rotta, prima che sia troppo tardi. Attendiamo, a tal proposito, che il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, Luca Zaia convochi, al più presto, la Conferenza nazionale sull’agricoltura.
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