18 aprile 2024
Aggiornato 23:30
Lotta alla leucemia

Leucemia linfatica cronica, scoperta la proteina che impedisce alle linfoghiandole di sgonfiarsi

Uno studio, condotto anche dai ricercatori dell'Istituto nazionale tumori CRO di Aviano, ha scovato la proteina che rende meno efficaci i farmaci contro la leuc

Leucemia linfatica cronica
Leucemia linfatica cronica Foto: Shutterstock

ROMA – Grazie a uno studio internazionale a cui hanno contribuito anche i ricercatori del CRO (Centro di Riferimento Oncologico) di Aviano (PN) si è scoperto che uno dei farmaci biologici utilizzati per il trattamento della leucemia linfatica cronica, può essere meno efficace se le cellule tumorali portano sulla loro superficie una particolare proteina detta CD49d.

La forma più frequente
La leucemia linfatica cronica è considerata la più frequente forma leucemica del mondo occidentale, con un numero di nuovi casi all’anno nel nostro Paese di circa 5-7 casi ogni 100 mila abitanti – si legge nel comunicato del CRO – In questa patologia, le cellule leucemiche si accumulano nei linfonodi, nella milza e nel midollo osseo.

Se le cellule non si 'sgonfiano'
Quello che i ricercatori hanno scoperto in questo studio, pubblicato dalla prestigiosa rivista internazionale The Journal of Experimental Medicine, dimostra in modo inequivocabile come uno degli effetti più eclatanti del trattamento della leucemia linfatica cronica con ibrutinib non avvenga. In pratica, non si verifica il cosiddetto 'sgonfiamento' delle linfoghiandole sedi di malattia per distacco e uccisione delle cellule leucemiche. Tutto questo non accade o accade in maniera minore quando le cellule leucemiche stesse presentano la proteina CD49d sulla loro superficie.

La speranza dei farmaci biologici
Le opportunità terapeutiche neo confronti di questa forma leucemica sono state riposte ultimamente nei cosiddetti farmaci biologici tra cui ibrutinib, si sottolinea nel comunicato. L’effetto principale di tali farmaci è dovuto alla loro capacità di 'staccare' le cellule leucemiche dai tessuti delocalizzandole transitoriamente nel sangue dove esse muoiono e vengono eliminate.

Le prove
Il team di ricercatori coordinato da Antonella Zucchetto e Valter Gattei del CRO e Tanja Nicole Hartmann dell’Università di Salisburgo, ha dimostrato come più elevati livelli di CD49d sulla superficie delle cellule leucemiche fossero associati con una minore risposta clinica a ibrutinib, sia in termini di riduzione di masse leucemiche che di incremento di linfociti nel sangue. Di conseguenza, i pazienti andavano più rapidamente incontro a una progressione della malattia. «I risultati dello studio – spiega la dott.ssa Zucchetto – suggeriscono che le cellule leucemiche che risiedono nei tessuti linfatici sede di malattia siano in grado di usare CD49d per rimanere adese ai tessuti anche in presenza di ibrutinib. Grazie a questa capacità, le cellule leucemiche che portano CD49d sulla loro superficie rimangono nei tessuti vive e vitali e ciò influenza negativamente il risultato terapeutico».

Individuati anche altri farmaci
Oltre a ibrutinib, recentemente sono stati individuati altri farmaci biologici che possono essere usati in combinazione con questo potenziandone l’effetto. I ricercatori hanno dimostrato come l’uso simultaneo di ibrutinib e un altro farmaco ad attività simile, detto idelalisib, fosse in grado di bloccare meglio la proteina CD49d sulla superficie delle cellule leucemiche. «Questa osservazione suggerisce come la valutazione dei livelli di espressione di CD49d in pazienti che devono iniziare la terapia con ibrutinib – sottolinea Valter Gattei – possa identificare quei casi per i quali una terapia di combinazione, finalizzata al blocco completo della molecola CD49d, possa essere di maggior beneficio terapeutico». Lo studio è stato condotto grazie a finanziamenti istituzionali, del Ministero della Salute, AIRC e AIL.