Amorosi: «I media italiani spettacolarizzano la guerra, proprio come il Covid»
Il giornalista Antonio Amorosi analizza al DiariodelWeb.it il racconto unilaterale del conflitto da parte della stampa occidentale e le sue gravi conseguenze geopolitiche

C'è la realtà tragica del conflitto che in questi giorni imperversa in Ucraina, con i bombardamenti e i missili che esplodono quotidianamente. E poi c'è la realtà che viene raccontata da noi, in Occidente, dai media mainstream. Due versioni della stessa verità che non sempre coincidono, nei fatti ma soprattutto nelle interpretazioni, nel racconto che ci viene presentato. Il DiariodelWeb.it ne ha parlato con il giornalista Antonio Amorosi.
Antonio Amorosi, come sta raccontando la guerra la stampa occidentale?
Con un misto tra l'adesione acritica ai dettami degli Stati Uniti e la società dello spettacolo. La vicenda della guerra è gravissima, ma questo cortocircuito culturale va addirittura al di là. Si è manifestato in modo plastico già con il Covid.
Si applica lo stesso trattamento che ha ricevuto chiunque avanzasse il minimo dubbio verso i vaccini: ridicolizzazione o addirittura criminalizzazione.
Beninteso, non si tratta di un complotto, o di un disegno dei grandi media. Ma, ripeto, di ideologia mischiata allo spettacolo. Si sovrappongono valanghe di fake news, di notizie in molti casi non verificate, con il vero e proprio tifo. I russi sono diventati i mostri, al punto che si mette in discussione qualsiasi elemento della loro cultura: si chiede di abbattere la statua di Dostoevskij, non si dà spazio nemmeno ad un dissidente che critica Putin.
Nel resto del mondo la narrazione è diversa?
In Giappone, ad esempio, la società dello spettacolo non ha la stessa presa sulle elite e il contesto intellettuale è ancora molto rispettato, quindi la rappresentazione che ne danno i loro giornali è molto distante.
Qual è la loro interpretazione?
Hanno spiegato come Putin veda questa guerra di aggressione come una rivincita rispetto all'umiliazione patita nel 2014. Allora la Russia era tornata sulla scena internazionale con le Olimpiadi di Sochi, che furono però appannate dalla defenestrazione del presidente ucraino filorusso. Dall'altro lato mostrano che dietro a questo tentativo di riscatto c'è l'ideologia euroasiatica.
Che cosa significa?
Che i russi si pensano come soggetti dotati di un'identità nazionale propria, né europea né asiatica. Accettano alcuni processi della globalizzazione e del consumismo, ma li regolano fortemente rispetto alla loro tradizione. Ci sono due Russie: quella delle grandi città come Mosca e San Pietroburgo e poi quella profonda, che è particolarmente legata a Putin, perché è riuscito a ricostruire l'ordine in un momento in cui la popolazione era impoverita, persa, faticava a sopravvivere. Per questo l'idea degli Stati Uniti di abbatterlo è pericolosissima.
Lo abbiamo visto già con Saddam e Gheddafi.
Eliminare Putin non risolverebbe il problema, perché dietro di lui c'è un gruppo dirigente diffuso che la pensa come o peggio di lui. Vogliono riprendersi quelli che considerano i fratelli inseparabili ucraini, una parte della loro stessa cultura. Per loro l'Ucraina è Gogol, Trotsky, Bulgakov: personaggi ucraini ma che hanno segnato la storia russa. Come si fa, nella loro mentalità, a separarsi?
Il conflitto nasce da questo legame strettissimo che Kiev vuole rompere.
La Costituzione ucraina è stata modificata nel 2019 inserendo la volontà di avvicinarsi alla Nato. Ma è come se in Italia, prima della caduta del muro di Berlino, il Partito comunista italiano, che pure ottenne anche la maggioranza, avesse preso il governo e deciso di aderire al patto di Varsavia. Gli Stati Uniti ne avrebbero seccato i leader uno dopo l'altro, sarebbe stata la guerra civile.
Questo storytelling unilaterale ha enormi ricadute, perché lavorare efficacemente con la diplomazia occorre prima di tutto mettersi nei panni del nemico, capirne le ragioni.
Certo. Una trattativa si conduce così: per smontare le armi della parte avversa devi prima di tutto comprenderla. Bisognerebbe sedersi ad un tavolo e negoziare, per evitare che gli innocenti muoiano, a prescindere dagli scontri tra establishment. Alla grande massa ucraina frega poco di entrare nella Nato: gli importa la pace, il benessere, una condizione migliore, affrancarsi dal giogo russo.
Il racconto mediatico non è solo un tema di opinione pubblica, ma incide direttamente sulla realtà.
Il grande Carmelo Bene diceva che la gente pensa che il termine «cultura» derivi da «culo», invece deriva da «colon», che in greco significa «colonizzare». La costruzione intellettuale della realtà pervade tutto. Sembra che il nostro lavoro, quello di scrivere parole, sia superficiale. Invece è profondo, trasforma l'animo delle persone, distingue il giusto dallo sbagliato. Soprattutto con la capacità martellante dei media odierni, che ci seppelliscono di notizie, tra le quali molto difficilmente riusciamo a distinguere il vero dal falso.
Il nostro giornalismo ha rinunciato al suo ruolo di cane da guardia del potere?
In Italia non c'è mai stata una grande indipendenza dei media, anche per motivi storici. La nostra cultura è diversa da quella anglosassone, perché i nostri giornali sono nati come propaggine dei partiti.
Almeno, però, in passato i quotidiani delle principali fazioni politiche si controbattevano a vicenda. Ora la versione che viene proposta è unica.
Questo è un vero problema. Però c'è spazio, in piccole nicchie, per chi cerca di raccontare altre storie.
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