28 agosto 2025
Aggiornato 05:00
Tragedia di piazza San Carlo

Dopo Erika e piazza san Carlo: la tragedia della città stato, e del concetto di regola

Una tragedia che, ancora una volta, apre uno squarcio sulla cultura di fondo di questo paese: esistono dei responsabili materiali per quanto accaduto, ma la cultura dell’irresponsabilità ormai dilaga a tal punto da rendere pericoloso ciò che ieri era ritenuto normale

TORINO - E’ deceduta, dopo lunga agonia, la giovane donna di Domodossola travolta dalla folla in piazza san Carlo a Torino. Si chiamava Erika Pioletti, aveva appena trentotto anni, ed era un’impiegata. Una tragedia che colpisce duramente chi ne piange la morte, in primis il fidanzato e la famiglia. Una tragedia che, ancora una volta, apre uno squarcio sulla cultura di fondo di questo paese: perché è sicuramente vero che esistono dei responsabili materiali per quanto accaduto, ma è altrettanto vero che la cultura dell’irresponsabilità ormai dilaga a tal punto da rendere pericoloso ciò che ieri era ritenuto normale. E la constatazione che la psicosi terroristica è parte delle nostre vite, innegabile, peggiora tale situazione. A fronte di un contesto pericoloso, la cultura odierna ci chiede di essere meno riflessivi, più spericolati, in poche parole di non riflettere. La parola «regola» nel tempo recente ha preso un significato oscuro, qualcosa di collegato con l’essenza di libertà, di repressione, una gabbia entro cui stare. Un disvalore che viene contenuto dentro la retorica dei «lacci e lacciuoli che imprigionano».

La libertà come assenza di limiti
Per molti anni ho fatto l’educatore, per molti anni ho portato centinaia di adolescenti, di fronte a uno splendido panorama in alta val Chisone. Di fronte a noi un orizzonte mozzafiato e soprattutto un burrone da mille metri di salto. Una volta tornati in classe ragionavamo sul concetto di «limite»: altra parola circondata da un’aura infausta, anch’essa divenuta figlia prediletta di un retorica libertaria senza senso. Quante volte ho sentito i ragazzi, e non solo, definire la libertà come assenza di limiti: proprio lì, di fronte a quel limite materiale. Di fronte a quel burrone, a quel salto nel vuoto, quelle parole figlie dell’involuzione culturale nata col ’68, e poi allargatesi con un'infezione a qualsiasi settore della vita – in primis quello economico con l’avvento, e il successivo dominio, dell’ideologia neoliberale – trovavano un'insuperabile barriera: quella che difende l’essere umano dall’autodistruzione. Ma la riflessione, traslata nella quotidianità, non durava molto dopo la discussione a livello teorico. Subito tornava inesorabile la voglia di «essere liberi e senza regole». Schiavi di un’ideologia totalitaria, quella che chiede «just do it»: fallo e basta. Nessun regime totalitario ha mai sconvolto la percezione umana come un’azienda che produce abbigliamento. Tre decenni per renderci ciechi di fronte ai burroni nei quali ci gettiamo, felici e contenti.  Tre decenni in cui abbiamo cancellato trenta e più secoli di filosofia greca, in maniera compiaciuta. La raffinata astrazione secondo cui la regola è quello strumento che apre alla libertà, così come il limite, non ha più valore in nessun campo: soprattutto nelle istituzioni.

La competitività delle città stato
Un disastro annunciato quello delle città stato, buttate con i loro cittadini nella giungla della competitività: ne scrisse nel 1973 David Harvey, nell'opera Social Justice and the City. Fu forse il primo che descrisse i pericoli del crollo del potere centrale degli stati e lento dilagare della cosiddetta "estrazione di valore dal territorio".
Rdicolizzato, giace nel cassetto dei ricordi. Eppure quanto accade nelle nostre città è la prova che la sua analisi, dimenticata, annunciava il mondo in cui viviamo.
In questo contesto emerge, compulsiva, l’unica regola possibile: la competitività, che assorbe perfino il livello istituzionale. E porta le istituzioni a gettare le basi per una gara perpetua, alla caccia della maggiore estrazione di valore possibile. Le città sono in gara tra di loro: per avere più turisti, per avere più afflusso di capitale, perché o sono divorate dal debito e sono strozzate dal patto di stabilità: che ha cambiato nome ma è sempre tale. In tal senso, dopo la tragedia di Torino, e in virtù della nuova percezione della paura di massa, di profonda riflessione e ripensamento dovrebbero essere i grandi eventi che coinvolgono le nostre piazze e importanti porzioni di popolazione. Ma di nuovo, se è tutto ridotto a un mercato, non potrà che valere un principio di competitività fondato sulla teoria dei giochi, l'utopico equilibrio di Nash, in cui prima o poi qualcuno, per avere un beneficio immediato, tradisce il patto con gli altri. Se devo fare una festa in piazza, di modo che venga gente da tutta Italia, così mi porta soldi con cui pago la sopravvivenza degli asili nido, posso circondarla di poliziotti e mettere metal detector? Oppure posso addirittura non farla seguendo un principio di precauzione visto quanto sta accadendo nel mondo? Trovate voi la risposta. La morte di questa giovane donna potrebbe aprire scenari per una seria riflessione sul mondo in cui viviamo, e per le regole che ci siamo dati. Far soggiacere lo stato, e in generale la vita, al mercato dovrebbe essere un altro oggetto di riflessione. Avremo la forza per fare ciò? Oppure ci limiteremo a trovare i responsabili materiali di quanto è accaduto, sostituirli e andare aventi con lo stesso modus operandi?