Moschea sì, moschea no?
I fatti di Parigi e l'avanzata dell'Is hanno rintuzzato il focolaio della paura verso l'estremismo islamico. Dopo la legge anti-moschee lombarda, infuria il dibattito tra chi ritiene che limitando la costruzione di luoghi di culto si difenda la sicurezza dei cittadini, e chi si appella alla libertà di culto e pensa che l'estremismo non si combatta a colpi di discriminazioni.
ROMA - Moschea sì, moschea no? E’ da dopo l’11 settembre che la questione infiamma gli animi di politici e cittadini. Dopo i fatti di Parigi di quest’anno, poi, l’argomento è diventato ancora più d’attualità: basti pensare alla legge anti-moschee fatta approvare in Lombardia dalla giunta Maroni tra mille polemiche, ma anche le tante mobilitazioni territoriali – soprattutto della Lega Nord –, volte a impedire la diffusione di luoghi di culto islamici. Il timore è ben noto: e cioè che, in quelle moschee, si possano annidare predicatori in malafede, che rintuzzino i focolai dell'estremismo islamico.
752 EDIFICI DI CULTO, MA SOLO 3 MOSCHEE UFFICIALI - D’altra parte, secondo il rapporto Conflicts over mosques in Europe di Stefano Allievi (2009), nel Belpaese la mezzaluna islamica svetta su 752 edifici. Il numero però, va ridimensionato alla luce del fatto che in 749 casi si tratta di sale di preghiera, ovvero spazi spesso provvisori (come vecchi magazzini, negozi e appartamenti privati) adibiti a luoghi di culto. Le moschee vere e proprie, con cupola, cortile e colonnato, sono invece solamente tre: a Roma, Segrate e Catania (quest’ultima non più utilizzata). Una quarta sta sorgendo fra le polemiche a Colle di Val d’Elsa, in Toscana. In ogni caso, la tendenza è quella di tollerare luoghi di culto ‘anonimi’, piuttosto che le moschee vere e proprie, come ha dimostrato l’esito del referendum in Svizzera che ha sancito il divieto di costruire nuovi minareti. Un atteggiamento che potrebbe essere valutato irrazionale: perchè le moschee sono molto più semplici da controllare, rispetto a scantinati mimetici che spesso non si riescono nemmeno a localizzare. Tale argomento, spinge i difensori del diritto di culto a domandarsi se le polemiche sulla sicurezza non siano, in fondo, strumentali, e non scaturiscano, piuttosto, da un banale senso di intolleranza e dalla volontà di ricavare slogan elettorali di facile presa. In ogni caso, sono quasi 11mila le sale da preghiera e le moschee presenti in tutta Europa a disposizione degli oltre 18 milioni di musulmani che vivono nel Continente, con un rapporto di una ogni 1.650 abitanti, che è comparabile a quello di alcuni Paesi arabi.
MOSCHEE SI', MOSCHEE NO? - Così, il dibattito sui luoghi di culto musulmani non si ferma: da un lato, c’è chi ritiene che la costruzione di nuovi edifici debba essere bloccato, per troncare sul nascere la possibilità che tali spazi diventino ricettacoli di potenziali terroristi; dall’altro, c’è chi pensa che vietare la concessione di luoghi di preghiera «ufficiali» possa favorire forme di associazionismo tra islamici incontrollabili, e dunque potenzialmente ancora più pericolose. Oltre alle due posizioni, c’è chi ricorda che la Costituzione italiana sancisce la libertà di culto, in forma pubblica o privata, riflettendo sul fatto che, ogni volta che neghiamo a qualcuno di praticare il proprio credo per paura di degenerazioni e fenomeni criminali, stiamo di fatto vietando un diritto importante a intere comunità di persone oneste.
850 CRISTIANI PER EDIFICIO, 1800 MUSULMANI - D’altronde, i numeri non mentono: secondo la ricerca Rapporto Italia (Eurispes, 2006), i praticanti cristiani nel nostro Paese sono circa 22 milioni. Considerando che le parrocchie sono indicativamente 26mila, abbiamo un rapporto di quasi 850 fedeli per edificio. La proporzione per i musulmani è invece di circa 1.800 fedeli per luogo di culto. Premettendo ovviamente che la religione cattolica riveste in Italia una posizione d’indubbio rilievo, lo scarto tra i due numeri rimane comunque difficile da spiegare, in uno Stato laico che, per di più, sancisce nella Carta patria la libertà di culto.
NUMEROSI CENTRI SOTTO CONTROLLO, E QUALCHE IMAM ARRESTATO - Il pericolo terroristico, però, non è certo da banalizzare. Un rapporto riservato del Ministero degli Interni – datato 2007 e reso pubblico l’anno successivo da Repubblica – rivela che numerosi centri sono sotto stretto controllo da parte della polizia perché sospettati di diffondere odio e incitare alla violenza. In alcuni casi sono stati aperti dei procedimenti penali che hanno condotto anche a condanne definitive, come per Abu Imad (l’ex-imam della sala di preghiera di viale Jenner a Milano). Inoltre, secondo i dati del Global Terrorism Database (Università del Maryland), il numero degli attentati terroristici degli ultimi vent’anni riconducibili al fondamentalismo islamico sono in netta predominanza rispetto a quelli perpetrati dalle altre religioni. A tali obiezioni, Roberto Piccardo, fondatore dell’Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia, ha tempo fa risposto: «I pazzi sono dovunque, ma nel nostro caso il problema viene esasperato dai media». Eppure, c’è un altro fattore da tenere in considerazione: se è pur vero che gli imam predicano ormai sia in arabo che in italiano – per parlare anche ai fedeli autoctoni –, assicurando così la possibilità di monitorare i contenuti dei discorsi, non c’è alcuna certezza che le traduzioni siano effettivamente letterali.
RISPONDERE AL FONDAMENTALISMO CON L'INTOLLERANZA? - Eppure, tra chi si appella al sacrosanto diritto della libertà di culto e chi rintuzza i fuochi della paura, non è così facile sapere da che parte schierarsi. Di certo, il discorso si presta a moltissime strumentalizzazioni. Le degenerazioni fondamentaliste non sono sufficienti a imputare all’Islam una natura intrinsecamente «violenta»: manipolare un testo sacro antico, che fa riferimento a contesti lontani di millenni, è un esercizio estremamente facile: basti ricordare che Hitler e le armate del Terzo Reich avanzavano al grido di «Gott mit uns!», cioè «Dio è con noi!». Di certo, però, la complessa situazione geopolitica dei Paesi arabi, peggiorata di decennio in decennio, è stata un terreno perfetto per l’attecchire della propaganda estremista. Nel passato, infatti, l’Islam si è sempre contraddistinto per essere una religione tollerante e includente: basti pensare alla felice mediazione tra la cultura musulmana, quella persiana e bizantina. Tale peculiarità, purtroppo, non si è riprodotta nella modernità, perché la storia degli ultimi decenni ha alimentato un profondo senso di rivalsa nel mondo arabo. Questo disagio ha poi trovato nella religione l’unico linguaggio praticabile per esprimersi: e la religione, si sa, è una lingua universale, capace di valicare confini nazionali e continentali portando con sè i propri messaggi. Ecco perché il problema non può essere banalizzato, semplificato o strumentalizzato: di fronte a pericoli per la sicurezza dei cittadini, ci si deve chiedere se un pensiero che banalizza o snatura l'Islam e una politica che rischia di diventare intollerante e calpestare il diritto di intere comunità possa essere la risposta. O non rischi di peggiorare il sentimento di odio e rivalsa che cova in qualsiasi potenziale terrorista.