Afghanistan: Daesh, i talebani, le bombe di Trump e la storia che si ripete
Gli ultimi attentati in Afghanistan dimostrano come la guerra iniziata dagli Usa 17 anni fa non solo abbia fallito, ma anche peggiorato la situazione
KABUL - «Fino a quando il popolo afghano dovrà sopportare questa disumana violenza?». Se lo è chiesto anche papa Francesco, nell'Angelus di ieri, dopo che, in soli dieci giorni, tre barbari attacchi a Kabul e uno nell’Est del Paese, a Jalalabad, hanno riportato il conflitto afghano sotto i riflettori internazionali. Un conflitto che dura ormai da quasi 17 anni, e che, nelle intenzioni americane originarie, avrebbe dovuto sradicare il seme del jihadismo islamico in quella «guerra al terrorismo» dichiarata da George W. Bush all'indomani dell'attacco alle Twin Towers. E invece, a più di un quindicennio di distanza, non solo il terrorismo è tutto tranne che sconfitto, ma si assiste addirittura a una recrudescenza delle violenze, con i talebani vivi e vegeti e, oltre a loro, lo Stato Islamico sempre più minaccioso nello sventurato Paese dell'Asia centrale.
L’ultimo attacco dello Stato Islamico
Così, dopo l’assalto all’Hotel Intercontinental del 20 gennaio, l’esplosione di un’ambulanza sabato e l’attentato agli operatori locali di Save the Children, lo Stato Islamico ha rivendicato l’ultimo attacco perpetrato contro l'Accademia militare di Afghanistan a Kabul, costato la vita ad almeno cinque soldati. La Marshall Fahim Academy, soprannominata anche «Sandhurst of the Sands», addestra l'esercito afghano, dai cadetti agli ufficiali di stato maggiore, ed era già stata obiettivo di violenze lo scorso ottobre, quando persero la vita quindici giovani reclute afgane.
La condanna di Washington… ai talebani
Durissime le parole del presidente Donald Trump dopo l’autobomba esplosa sabato nella capitale: «I talebani» (che hanno rivendicato l’attentato, ndr), ha detto, «hanno preso di mira afgani innocenti, poliziotti coraggiosi oggi a Kabul. I nostri pensieri e le nostre preghiere sono per le vittime e i primi soccorritori. Non permetteremo ai talebani di vincere». Quindi, il segretario di Stato Rex Tillerson si è appellato a «tutti i paesi che sostengono la pace in Afghanistan», che, ha dichiarato, «hanno l'obbligo di adottare azioni decise per porre fine alla campagna di violenza dei talebani». Analisi ampiamente attesa da Washington, ma, perlomeno, parziale. Perché ad oggi, a 17 anni dall’inizio della campagna a stelle e strisce, il problema dell’Afghanistan non è più rappresentato solo dai talebani: ora, a minacciare il Paese c’è anche lo Stato Islamico, non a caso autore dell’attacco di questa notte.
Peggio di 20 anni fa
Oggi, insomma, la situazione è decisamente più complicata di quanto non lo fosse all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. E per quanto Barack Obama non sia mai riuscito a imprimere la svolta promessa alla crisi, il pugno duro di Donald Trump, al momento, sembra capace soltanto di rintuzzare ulteriormente le scintille delle violenze. Da parte di tutti gli attori in gioco: i talebani, Daesh, ma anche i governativi, supportati dagli americani. Perché, negli ultimi tempi, i raid degli alleati si sono triplicati rispetto al passato.
I raid continuano, i negoziati sono fermi
E tra attentati e raid aerei, il processo negoziale è drammaticamente bloccato in una fase di stallo senza uscita: i talebani, infatti, hanno negato che vi sia stato un incontro informale in Turchia, né hanno confermato una visita in Pakistan di membri del loro ufficio politico a Doha, in Qatar, dove ha sede l’unica rappresentanza ufficiale del movimento fuori dal Paese. Inoltre, ribadiscono che le trattative resteranno bloccate finché rimarrà una presenza di occupazione straniera nel Paese.
La strategia di Trump: controproducente?
Dal canto suo, Washington ha più volte puntato il dito contro il Pakistan, accusandolo di essere compiacente nei confronti di gruppi come i talebani o i loro alleati della rete Haqqani. All'inizio di gennaio il presidente Donald Trump ha denunciato le «menzogne» e la «duplicità» di Islamabad nella sua lotta contro il terrorismo, e minacciato di sospendere fino a due miliardi di dollari di aiuti al Paese. Oltre alle minacce a Islamabad, tese a forzare quest’ultima a ricalibrare il proprio ruolo di supporto ai talebani, la strategia trumpiana ha previsto un’accelerazione nei raid, nella speranza che questi riescano a mettere fine alla guerriglia. Ad oggi, però, nulla fa pensare che tale strategia funzionerà: innanzitutto, perché la guerra, appunto, dura da più di un quindicennio, e, nonostante le tante bombe sganciate sul Paese, la guerriglia prosegue imperterrita, e anzi, trae forza retorica dall’occupazione straniera. Inoltre, non è affatto detto che le minacce convincano Islamabad a rivedere la propria posizione: al contrario, potrebbero invece spingerla sempre più nelle braccia di Russia e Cina, potenze che in Afghanistan si stanno ritagliando sempre maggiore influenza, con un ruolo diplomatico alternativo alle (inefficaci) bombe di Washington basato sull’evidenza - ancora oggi rifiutata dagli Usa - che, prima o poi, con i talebani si dovrà venire a patti.
Daesh resuscita in Afghanistan
E poi c’è la variabile Iran, assolutamente non trascurabile. Perché la strategia americana anti-Teheran potrebbe incoraggiare quest’ultima a giocare anche sul tavolo afghano. E sempre sull’Afganistan, terra madre degli estremismi mediorientali, sembrano puntare anche i soldati di Daesh, che hanno dovuto abbandonare le basi ormai cadute di Iraq e Siria. L’estrema instabilità del Paese, la rabbia dell’occupazione straniera, i conflitti di potere tra il governo e i talebani e la frontiera porosa con il Pakistan offrono ai reduci di Raqqa e Mosul un terreno fertile su cui continuare a spargere i propri semi di morte. Approfittando del fatto che, a parte fulminei titoli - ma destinati rapidamente a sgonfiarsi - che compaiono sui giornali ad ogni attacco, la guerra senza fine in Afghanistan, incontrastato simbolo del fallimento della politica estera a stelle e strisce, è ormai affidata, in gran parte, all’oblio.