Ramadi divide USA e Iraq, con l'Isis «sarà una lunga guerra»
Ne è convinto Faleh A. Jabar, direttore dell'Iraq Institute for Strategic Studies, secondo il quale dietro le dure critiche statunitensi alle forze irachene si nasconde la reale intenzione di Washington di spingere per una «riforma della Guardia nazionale che preveda un'attiva partecipazione della popolazione» nella lotta ai terroristi dell'Isis.
WASHINGTON (askanews) - La città di Ramadi, finita nelle mani dei jihadisti dell'Isis, potrà essere ripresa dalle forze di Baghdad, ma la guerra allo Stato islamico sarà lunga, anche «più di un anno», e non vedrà impegnati militari Usa sul terreno. Ne è convinto Faleh A. Jabar, direttore dell'Iraq Institute for Strategic Studies, secondo il quale dietro le dure critiche statunitensi alle forze irachene si nasconde la reale intenzione di Washington di spingere per una «riforma della Guardia nazionale che preveda un'attiva partecipazione della popolazione» nella lotta ai terroristi dell'Isis.
Le forze irachene hanno lanciato questa mattina un'operazione nelle regioni desertiche a Nord-Est di Ramadi per isolare i jihadisti dello Stato islamico (Isis) prima di avviare l'offensiva per riprendere il controllo del capoluogo della provincia di Al-Anbar. L'operazione è iniziata 48 ore dopo il fuoco delle critiche arrivate da Washington e respinte al mittente da Baghdad. Per il segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, Ramadi è caduta in fretta perché «le forze irachene non hanno mostrato alcuna volontà di combattere». «Noi possiamo fornire loro addestramento, equipaggiamento, ma non possiamo certo dare loro la volontà di combattere», ha detto Carter, sottolineando che «solo se combattono, l'Isis può essere sconfitta».
Nonostante le perplessità statunitensi, il premier iracheno Haider al Abadi si è detto fiducioso che Ramadi potrà essere strappata all'Isis nel giro di «qualche giorno». Le truppe irachene sono rimaste traumatizzate dalle tattiche sconvolgenti dei jihadisti, ha ammesso il primo ministro. Ma le informazioni arrivate a Washington sono «inesatte», ha insistito.
Le critiche americane, d'altra parte, nasconderebbero un secondo fine, secondo l'opinione espressa da Faleh Jabar ad askanews: «spingere sulla necessità di una riforma del settore militare» e «criticare i ritardi del governo iracheno nella creazione di una Guardia nazionale che preveda il coinvolgimento attivo della popolazione locale nella lotta all'Isis». Possibile che nelle considerazioni critiche di Washington ci sia anche il tentativo di nascondere, almeno in parte, la «riluttanza statunitense a fornire supporto aereo alla Mobilitazione nazionale sciita nella battaglia di Ramadi», una posizione che - ha ricordato l'analista - è stata «pubblicamente criticata da vari gruppi sciiti come un segnale di sostegno all'Isis».
Se, dunque, ci sarà una revisione della strategia Usa in Iraq, l'impressione è che questa non comporterà l'invio di militari sul terreno. E questo nonostante le pressioni che arrivano da più parti sull'amministrazione di Barack Obama, in particolare dal fronte repubblicano che fa capo al senatore John McCain. «La presenza di truppe Usa» in Iraq «creerebbe più problemi di quanti ne potrebbe risolvere», ha commentato Faleh Jabar. E se in generale, «la strategia del contrasto al jihadismo prevede di avere una presenza straniera minima, mobilitando invece forze locali», nel caso di Baghdad, essa comporta delle condizioni specifiche aggiuntive: «una riconciliazione nazionale, politiche più inclusive nei confronti dei curdi e dei sunniti, la creazione di unità della Guardia nazionale in tutte le provincie a prescindere dalle etnie e dalle confessioni religiose».
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