29 marzo 2024
Aggiornato 12:30
Ancora presto per un direttore generale asiatico

FMI, Asia vicina alla stanza bottoni ma ancora fuori

La fine improvvisa del mandato di Dominique Strauss-Kahn come direttore generale del Fondo porta il problema alla ribalta

NEW YORK - Da 65 anni la convenzione viene rispettata: Banca mondiale a un americano, Fondo monetario internazionale a un europeo. Un compromesso che ha resistito alla guerra fredda, alla fine dei blocchi e all'avvento della globalizzazione, ma che sembra sempre più inadatto ad affrontare le necessità di un mondo che sta superando l'egemonia delle due sponde dell'Atlantico. Ora, la fine improvvisa del mandato di Dominique Strauss-Kahn come direttore generale del Fondo porta il problema alla ribalta: E' arrivata l'ora di un direttore generale asiatico in rappresentanza del continente dove la crescita economica è più dinamica?

I fatti sembrano dire che i tempi sono maturi, e anche il board del Fondo stesso aveva indicato, prima dell'affaire Dsk, che il processo di selezione del nuovo numero uno avrebbe dovuto essere «aperto sulla base del merito»: linguaggio diplomatico per dire che si sarebbe potuto parlare di candidati non europei se questi avessero avuto le qualificazioni necessarie. Ma poi l'entrata massiccia dell'Fmi nei pacchetti di salvataggio delle economie europee ha riportato la bilancia politica verso la scelta di un capo del Vecchio continente. Ci sono poi le considerazioni legate al fatto che il gigante asiatico in grado più di tutti di far valere il proprio peso, la Cina, non è ancora del tutto in linea con il sistema finanziario internazionale. Motivo per cui «un candidato cinese non passerà mai» questa volta, aveva detto a TM News Bessma Momani, professore alla Waterloo University canadese ed esperta del Fmi, prima delle dimissioni di Strauss-Kahn.

I nomi asiatici certo non mancano, a riflettere l'ascesa del continente ai vertici del capitalismo internazionale. C'è il ministro delle Finanze di Singapore, Tharman Shanmugaratnam, che però ha solo il sostegno di Tailandia e Filippine. L'India per ora tace, anche se uno dei suoi economisti più importanti, Montek Singh Ahluwalia, potrebbe essere un papabile: a farne il nome è stato un altro indiano che al Fondo aveva fatto carriera, Raghuram Rajan, ex capo economista dell'organizzazione. Significativo poi il fatto che la Cina, pur non essendosi espressa ufficialmente, non ha fatto trapelare alcun nome locale e anzi avrebbe fatto avances a un europeo. A sentire il quotidiano britannico Guardian, Pechino ha chiesto di farsi avanti a Peter Mandelson, l'ex fedelissimo di Tony Blair che è stato commissario Ue.

I mercati emergenti peraltro hanno già qualche nome di peso non indifferente ai vertici del Fondo: ma si tratta di tecnici di carriera internazionale più che politici con un appoggio forte dai governi di casa. Una è l'egiziana Nemat Shafik, vice direttore generale dall'aprile scorso, cittadina Usa e britannica oltre che del suo paese natale e notevole per essere una donna in cima a un'organizzazione feudo di una cultura fortemente maschilista. E poi c'è il cinese di più alto rango all'Fmi, il consigliere speciale del direttore generale, Min Zhu, con studi e cattedra negli Usa. A un passo tutti e due dalla stanza dei bottoni, ma non ancora dentro.