24 marzo 2025
Aggiornato 07:30
La «crisi» dei conti

Per i mali di Grecia e Spagna ci vorrebbero un Berlusconi e un Di Pietro

L’Italia dal rischio fallimento del ’92 è uscita con il processo Enimont e con l’avvento di Forza Italia

C’è una qualche analogia fra quanto sta accadendo oggi in Grecia e quanto accadde in Italia nel 1992?
A ben vedere ci sono più differenze che similitudini. Soprattutto l’Italia poté giovarsi di una svalutazione della lira di circa il 30 per cento, mentre la Grecia è bloccata nella gabbia dell’Euro.
Nonostante questo, il paragone fra il ’92 dell’Italia e la Grecia di oggi è reso possibile grazie ad un elemento in comune che cancella ogni differenza: come l’Italia corse il pericolo nel 1992, così oggi al Grecia rischia di non essere in grado di far fronte ai propri debiti e quindi essere costretta a dichiararsi insolvente, con ripercussioni che nessuno è in grado di prevedere.
Che cosa significhi per uno Stato fallire lo sintetizzò molto bene il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, quando, a distanza di molti anni dalle vicende a cui si riferiva, rivelò in una occasione pubblica che ai primi di luglio di quell’anno il ministero del Tesoro italiano non sapeva se a fine mese sarebbe stato in grado di pagare gli stipendi agli statali.
La responsabilità maggiore che la classe politica italiana si è addossata nel corso degli ultimi decenni è di non aver valutato appieno i danni che stava provocando (e maggiormente avrebbe provocato in seguito) un debito pubblico esorbitante.
Inoltre, con la complice disattenzione dei mezzi di informazione, la politica si è macchiata della colpa di non avere informato i cittadini della Santa Babara che si andava accumulando alle redici del loro futuro e di quello dei loro figli.

Se si vanno a consultare le relazioni della Banca d’Italia riferite agli anni della spesa facile, si potrà constatare che non c’è stato rito annuale di Via Nazionale in cui i Governatori, da Guido Carli, a Carlo Azeglio Ciampi, abbiano dimenticato di dedicare un capitoletto agli eccessi della spesa.
Ma basta andare a rileggersi le cronache di quelle ricorrenze annuali per verificare con quale sufficienza l’argomento venisse recepito dai politici e trattato dai giornali, anche quelli specializzati.
D’altronde c’è poco da meravigliarsi per questa colpevole indifferenza: quelli erano gli anni in cui un politico autorevole come Giulio Andreotti poté affermare che non era il caso di preoccuparsi troppo per quel debito, tanto si trattava di una esposizione che lo Stato aveva con i suoi cittadini. Erano quindi quattrini, secondo Andreotti, che erano usciti dalla tasca destra , in attesa di fare ritorno nella tasca sinistra della stessa Italia. Una affermazione alla quale fece eco in quei giorni la conferma dell’allora ministro del tesoro, Beniamino Andreatta, per di più economista.

Che cosa era che non quadrava nelle valutazione di Andreotti e Andreatta?
Primo, non era vero che il debito fosse unicamente dell’Italia con se stessa: il 25 per cento dell’intero ammontare era infatti con istituzioni e banche straniere.
Secondo, se lo Stato italiano si fosse dimostrato cattivo pagatore con i suoi cittadini, questi stessi avrebbero smesso di comprare Bot, con la conseguenza che il Tesoro a quel punto non avrebbe saputo come coprire il deficit annuale. Quindi lo sbocco sarebbe stato comunque l’insolvenza.
A meno che non si volesse percorre la strada indicata da un economista come Giulio Spaventa, allora deputato come indipendente nelle file del Partito Comunista italiano che, da membro della Commissione finanze di Montecitorio, proponeva un consolidamento del debito. Cioè una gigantesca «sola» da dare agli italiani e a quegli stranieri che avevano creduto nel nostro Paese. Con conseguenze devastanti.

Fortunatamente l’Italia riuscì a togliersi da quelle sabbie mobili.
Come ci riuscì è al centro del dibattito politico di questi giorni. C’è chi, in un groviglio di storia e dietrologia, unisce in un unico filo conduttore, l’uccisione del giudice Falcone, le picconate di Cossiga, l’elezione a sorpresa alla Presidenza della Repubblica di Scalfaro, l’avvento ai vertici della magistratura operativa di Di Pietro, il processo Mani Pulite, la conseguente uscita dalla scena non solo di Andreotti, Forlani e Craxi, ma in blocco dei due partiti che fino a quel momento erano stati i padri padroni dell’Italia.
Il perché i due partiti egemoni «dovessero sparire» in blocco si spiega solo con la necessità di fermare una macchina elettorale fondata su tangenti, voto di scambio, costoso inciucio con i comunisti e spesa pubblica: cioè l’impasto che aveva portato il debito pubblico alle soglie del default.
Non a caso dopo quel processo di Stato che va sotto il nome di Enimont si verifica: l’avvento di Silvio Berlusconi, un uomo che fonda un partito liquido che non ha bisogno di voto di scambio perché si avvale delle doti carismatiche del suo leader; il debito pubblico che comincia a scendere (anche se ora è in risalita); l’Europa che, grazie a Prodi e Ciampi, da ex quasi falliti, ci accoglie nell’Euro.
Infine si verifica il controllo dei conti pubblici che, grazie alla continuità di un trend voluta da Giulio Tremonti, in questi giorni ci ha consentito di essere cancellati dall’acronimo Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) con il quale vengono marchiati i cattivi ragazzi dell’Euro.
Questo quadro non sarebbe completo senza rilevare inoltre che quello che fu il pubblico ministero di Mani Pulite ora punta al 10 per cento dei voti in Parlamento.

Ci stanno Grecia, Spagna e Portogallo ad affrontare le forche caudine attraverso le quali è passata l’Italia per evitare il fallimento? Chi obbligherà i rispettivi governi in carica a fare karakiri per facilitare la svolta?
E in Italia il processo è avvenuto spontaneamente o qualcuno l’ha reso obbligatorio? E chi?