3 ottobre 2025
Aggiornato 10:00
Il G20 è chiamato ad emanare le ricette per uscire dalla recessione e risolvere gli squilibri

G20: a Pittsburgh imputata la globalizzazione

Ma intanto gli economisti si scontrano sull’origine della crisi e si dividono fra ottimisti e pessimisti

Fra poche ore sapremo se veramente siamo usciti dalla recessione o se ci stiamo solo avviando verso l’uscita e per di più a passi molto lenti.
Il Fondo Monetario Internazionale, in attesa del G20 che si aprirà domani a Pittsburgh, ha già scritto cosa pensa a questo proposito. «Ci vorranno perlomeno sette anni per risalire la china», sono le conclusioni contenute in un articolo del World Economic Outlook pubblicato ieri.
Il danno di una crisi come quella che abbiamo vissuto negli ultimi due anni è destinata a durare nel tempo, avverte il Fondo, dopo che i suoi economisti hanno analizzato nell’arco degli ultimi quaranta anni il processo seguito a ben 88 crisi bancarie verificatesi in vari paesi.
»Sette anni dopo la fine della crisi- questo è il verdetto- il livello del prodotto non ha ancora riguadagnato i livelli precedenti alla crisi, anzi è in media di un 10 per cento inferiore».

USA PIÙ RISPARMIO - Quindi a breve non ci sono speranze? Il Fondo, sebbene poco incline all’ottimismo, lascia invece aperto uno spiraglio. Sostiene infatti che la perdita del reddito, nel medio periodo, non è inevitabile. A patto, però, che i paesi coinvolti introducano tempestivamente efficaci stimoli economici e realizzino riforme strutturali.
In sostanza questa è lo schema sulla crisi condiviso anche da Barack Obama: il quale ha detto che la ripresa sarà lenta, ma il quadro potrebbe migliorare più velocemente se si aumentassero gli sforzi per bilanciare l’economia mondiale.
Il nuovo equilibrio, secondo il Presidente degli Stati Uniti, dovrebbe poggiare su due pilastri. Da una parte sia i privati che lo Stato negli Stati Uniti dovrebbero diventare più parsimoniosi; dall’altra i cinesi dovrebbero alleggerire la pressione sulle esportazioni e consentire invece alla popolazione di accedere in numero maggiore ai consumi.

CINA PIÙ CONSUMI - E una prospettiva realizzabile? «E’ ora che i cinesi consumino di più» ha auspicato il primo ministro cinese, Wen Jiabao. «Male non può fare», ha aggiunto.
Ma di quanto può discostarsi l’economia cinese da una strategia che finora l’ha vista impegnata soprattutto ad esportare e a far crescere lo scrigno delle sue riserve? Bisogna comunque riconoscere che Pechino è stato il primo paese a svincolarsi dalla crisi: i dati che conosciamo indicano una crescita del prodotto interno lord del 7 per cento nella prima metà dell’anno e le proiezioni parlano di un aumento che a fine 2009 potrebbe toccare l’8,3 per cento.
Affinché questa rinnovata spinta produca effetti positivi anche sul resto del mondo sono in molti a ritenere che dovrebbe essere accompagnata da una rivalutazione anche della moneta cinese. Ma sono ancora più numerosi coloro che ritengono molto poco probabile che l’argomento venga sollevato a Pittsburgh.

L’ENTITÀ’ DELLA RIPRESA - Quindi ancora una volta l’uscita dal tunnel dipenderà dall’economia americana. A Washington i segnali di ripresa ci sono, ma la valutazione sulla loro entità registra pareri molto discordanti. «La ripresa sarà lenta e dovremo fare i conti con un aumento della disoccupazione», ha prudentemente avvertito Obama. Ma fra gli economisti si infoltisce il numero di chi naviga verso lidi contrassegnati dall’ottimismo.
Oggi la prima pagina del Sole24Ore rilancia le visioni rosee di Michael Mussa, uno dei più rispettati economisti del mondo, già consigliere del presidente Reagan, il quale sostiene che dal giugno 2009 al dicembre 2010 la crescita dell’economia americana sarà pari «ad uno stratosferico 7 per cento». Mussa basa le sue previsioni sulla convinzione che ad una repentina discesa verso il basso debba seguire un altrettanto veloce riscatto verso l’alto.
L’economista afferma che le sue convinzioni sono il frutto di una attenta osservazione di quanto è accaduto nelle precedenti recessioni, a partire dalla fine del secolo scorso.

SCONTRO DI ECONOMISTI - Peccato,però, che le sue considerazioni arrivino a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle espresse dal Fondo Monetario Internazionale. La natura del contendere fra queste opposte visioni è la fonte principale a cui attribuire il Big bang che ha provocato la crisi.
I giudizi divergono infatti se l’elemento scatenante sia da individuare nella crisi delle banche o negli squilibri delle economie.
Secondo l’economista Mussa, è la crescita economica che guarisce le banche e non viceversa. Quindi,dice, dal momento che gli individui stanno dimostrando di volersi rimettere in piedi è lecito prevedere che il rimbalzo sarà pari al colpo ricevuto.
Come era prevedibile le tesi di Michael Mussa sono state respinte da altrettanti economisti della sua stessa statura accademica e con argomenti non meno convincenti.

IL RISCHIO FLOP - Si va quindi verso Pittsburgh con idee molto confuse, sia sulla durata della recessione che sulle sue origini.
Il che sembra dare ragione ai dubbi espressi recentemente da Giulio Tremonti sulla capacità degli economisti di saper giudicare la materia chiamati ad analizzare e quindi sulla scarsa possibilità che le loro diagnosi possano anticipare gli accadimenti reali.
Se poi i 20 grandi, chiamati a Pittsburgh al capezzale della crisi, andassero a cozzare anche contro gli scogli dei nuovi regolamenti da imporre alla finanza mondiale, dopo l’immobilismo dimostrato all’Onu sull’ambiente, e il nulla di fatto a New York nel vertice fra Israeliani palestinesi, tutte le speranze in questa settimana, definita cruciale per le sorti dell’economia, del clima e della pace, finirebbero per risolversi nell’amara constatazione che, al di là delle buone intenzioni e della volontà di dialogare, siamo ben lontani dal porre rimedio a quegli squilibri che alcuni vedono come causa, altri indicano come effetto di una globalizzazione incompiuta o male interpretata.