28 aprile 2024
Aggiornato 16:30
Trieste Science+fiction festival 2016

Monolith, orgoglio italiano della fantascienza internazionale

Unico lungometraggio nostrano a ricevere una menzione tra i film premiati al festival. Parla di un Suv di utima generazione. In grado di trasformarsi in una trappola, o in un utero

Un’auto bunker, una vettura indistruttibile. Si chiama Monolith, rappresenta il sogno di poter guidare nella totale invulnerabilità e nei terreni più impervi. Il principio su cui si basa il concetto stesso di Suv: l’onnipotenza, ma soprattutto la sicurezza assoluta.
Sandra riceve questo regalo da un marito assente, che vuole conservarla in una campana di vetro e a debita distanza. L’auto si può comandare in remoto, attraverso una app telefonica, e proprio in questo modo si verifica il paradosso: il figlio di Sandra si chiude all’interno dell’auto, che diventa inespugnabbile come una cassaforte, in mezzo al deserto e sotto il sole dello Utah. L’emblema della della sicurezza diventa una prigione in cui si può morire lentamente, e Sandra deve fare in modo che non accada a suo figlio.


L’unica produzione italiana premiata
Questo il soggetto del fim Monolith, menzione speciale al Trieste Science+fiction festival , unico lungometraggio italiano tra i vincitori. Diretto dal regista Ivan Silvestrini e sceneggiato dalla grande firma della Sergio Bonelli editore, Roberto Recchioni. «Il film non poteva essere ambientato che negli Stati Uniti  - ci spiega Recchioni – dove vige l’ossessione per la sicurezza. Il messaggio è molto politico: la tecnologia è come il governo, ossia qualcosa a cui deleghiamo la nostra sicurezza, e più ci affidiamo, più ne siamo schiavi».

Film o fumetto?
Un’ambientazione tutta americana, ricercata con cura dal fumettista Lorenzo Ceccotti, che ha creato la graphic novel del film. «Ho fatto dei sopralluoghi nel deserto dello Utah, che è un luogo vario e spettacolare, ho interiorizzato l’ambiente rimanendoci giorno e notte, per vedere come il sole sorgeva e tramontava. Ero terrorizzato dal potermi dimenticare le sensazioni visive, e non poterle rendere graficamente». Il film e il fumetto (che uscirà a breve) sono nati insieme, si sono sviluppati in parallelo (unico caso, in Italia) e Ceccotti ha assistito il regista nello storyboard, scena per scena. Il film ne ha guadagnato un’estetica da fumetto, una fotografia che sfocia nell’epico.


Un Suv o un utero?
Molti hanno paragonato il film ai classici di Stephen King: ‘Christine’, la macchina infernale, o ‘Cujo’, in cui una madre e un figlio si trincerano in un’auto per non essere sbranati da un cane rabbioso. «Non ho voluto nemmeno approcciarmi a queste storie – racconta il regista Silvestrini – per paura di esserne influenzato. Mi sono ispirato piuttosto a un filone di film minimale, dal concept visivo molto forte. Mi riferisco a Gravity, di Alfonso Cuaròn, in cui un personaggio femminile entra in conflitto con un impianto tecnologico che rappresenta la sua interiorità. La stessa auto, il Monolith, in realtà è un utero. Da cui Sandra e suo figlio potrebbero rinascere, o morire».
Nel film, la protagonista si confronta con un bambino, un lupo e una macchina. Tutti e tre si rivelano incontrollabili, le si rivoltano contro, la stessa auto si pone sul piano delle forze della natura che devono essere ‘addomesticate’, e il tecnologico si rivela un mezzo per tornare al primordiale.

Ritorno alle origini
C’è un vero ritorno all’età della pietra dopo un inizio high tech: la stessa auto che doveva proteggere Sandra dalle minacce esterne la trascina in un contesto dove, per ammansire un lupo del deserto, non può far altro che urlargli contro.
Il regista stesso, ci rivela, ha dovuto affrontare sfide simili durante il film: «Mai lavorare con cani e bambini al cinema, mi avevano avvertito ma io non ho voluto ascoltare nessuno. Il cane purtroppo non era addestrato a dovere, e per portare il bambino ad avere le reazioni giuste abbiamo dovuto inventare giochi e ricompense, riprendere un repertorio di espressioni da riutilizzare in fase di montaggio».
Un percorso di addestramento, nella finzione e nella realtà. «Domare la tecnologia – conferma Silvestrini - significa domare i propri demoni. Le donne che devono crescere i figli vivono situazioni di grande stress perché la società non le valorizza e non permette loro di provare rabbia e insoddisfazione. Invece i demoni vanno affrontati, altrimenti prendono il sopravvento e si arriva a quei fatti di cronaca in cui le madri hanno raptus omicidi».
«La tecnologia è un coltello – conclude Recchione – non è buona nè cattiva, può tagliare il pane, oppure uccidere. Siamo noi che dobbiamo ‘addomesticarla’, non il contrario»