19 aprile 2024
Aggiornato 09:00
Giro d'Italia e utpoie

Giro d'Italia, da Biella a Oropa sulle ali di Pantani (e della felicità)

Quarantamila tifosi sanciscono il trionfo di uno sport che racchiude tutte i segreti della felicità. Dove le classi sociali non esistono, e nemmeno le differenze ideologiche

BIELLA - In un mondo giusto, serio, e sufficientemente folle da risultare equilibrato, tutti gli studenti d’Italia, d’Europa e del mondo dovrebbero essere portati sulle strade del Giro d’Italia. Anzi dovrebbero essere portati sulla salita che collega Biella allo splendido santuario di Oropa. Una gita educativa, un percorso didattico nell’utopia di un mondo dove, bizzarria delle bizzarrie, tutti tifano per tutti. E’ l’abracadabra del ciclismo, sport che unisce gli italiani con i tedeschi, con i colombiani, gli statunitensi e tutte le restanti nazionalità del mondo.

Dove le classi sociali non esistono, e nemmeno le differenze ideologiche
Sarà per quei volti sbarbati devastati dalla fatica e grondanti sudore: un esempio di abnegazione e sacrificio, di fatica portata a valore. Forse dipende dalla bellezza dei luoghi attraversati dalla corsa, oggi le splendide montagne che circondano Biella: una barriera frastagliata di aguzze cime ancora innevate. Sarà perché non si paga nulla per essere a un centimetro uno dagli atleti, dal cuore dello spettacolo. Sarà per un inusuale senso di fraternità che porta sconosciuti a fare amicizia, scambiarsi biscotti, birre, ognun disposto a fare fotografie all’altro. Forse l’incantesimo del ciclismo racchiude il segreto per la soluzione di immensi problemi che attanagliano la società italiana, fenomeno da studiare per capire se da esso si possa ricavare una chiave che apra porte oggi ai più sbarrate. Qualcuno spedisca sociologi ed economisti, psicologi e politici a studiare questo fenomeno assoluto, fondato su uno strumento sostanzialmente identico a quando nacque: la biciletta.

La tappa del secolo
Oggi ha vinto un ragazzone olandese con un cognome da veneto Domoulin, al termine di un duello con il colombiano di pietra Nairo Quintana, duello che potrebbe essere perfetto per la sceneggiatura di un film western. Il colombiano è scoppiato sulla salita finale: era in testa ma ha ceduto ed è caduto nella polvere. Ma questo, in fondo, non ha nessun valore perché l’unica cosa che conta è lo spettacolo dato da tutti i corridori e da tutti i tifosi. Una compenetrazione unica e potente, perfino nell'estetica che tende a confondere chi tifa con chi pedala. Qualcuno però si erge nell’Olimpo dei miti sportivi, e su tutti si erge Marco Pantani. Passano gli anni, i lustri, eppure il suo mito si ingrossa come quelle delle rock star che hanno disfatto le loro vite dentro percorsi fin dal principio scoscesi. Sulle strade del Giro d’Italia numero cento il mito Marco Pantani è stato onorato come non mai. Decine di suoi cloni si sono accalcati lungo il percorso che lui, il mito, decretò alla storia del ciclismo durante una epica tappa vinta e stravinta quasi venti anni fa. Il suo nome è vergato sull’asfalto, sui muri, sulle bandiere, sulle bandane, perfino sui tronchi degli enormi e spettacolari faggi che circondano il serpente d’asfalto che porta al santuario di Oropa. Raramente si ha la percezione di un uomo così vivo: non solo nel ricordo malinconico e romantico, ma nella materia.

Effimera felicità
Tutto, durante il Giro d’Italia, finisce troppo presto. Peccato. Pare sia questa fugacità la caratteristica dei piaceri della vita. Ma il Giro sembra  ancora più propenso a questa velocità che tende all’immaterialità, perché dopo tante ore di attesa, posti nel punto più pendente di un salita terribile, i corridori passano a velocità folle. Il tempo di impazzire per venti secondi, fare tutto ciò che non si dovrebbe fare e quando si vede in Tv si condanna senza pietà – giustamente – ed è tutto finito. Un posto dove si è legittimati, per qualche secondo, ad essere letteralmente pazzi di gioia.