Il suicidio del killer di Prati è una sconfitta per tutti
All'opinione pubblica potrà legittimamente importare poco del destino di un presunto omicida. Ma, non riuscendo ad evitare che si impiccasse in cella, lo Stato ha fallito una seconda volta. E non ha garantito giustizia alla famiglia della vittima
ROMA – In pochi giorni, lo Stato ha perso due volte. La prima nel pomeriggio di mercoledì scorso, in via dei Gracchi, dove il 70enne gioielliere Giancarlo Nocchia è stato ucciso durante una rapina: ieri, nella chiesa del suo quartiere, San Gioacchino, gli è stato tributato l'ultimo saluto davanti ad una folla silenziosa, sul suo feretro la sciarpa della Roma. La seconda poche ore prima di questo stesso funerale, nel carcere di Regina Coeli, dove il 32enne Ludovico Caiazza, arrestato con la fondata accusa di essere il killer dell'orafo, si è impiccato dopo appena qualche ora di reclusione.
La rabbia e l’orgoglio
Ci rendiamo perfettamente conto che il suicidio di un presunto assassino, per giunta con precedenti per violenza sessuale e pregiudicato per traffico di cocaina, non possa suscitare compassione umana nell'opinione pubblica. È una reazione istintiva, di pancia, perfettamente naturale. Eppure proprio di questo si tratta, di una sconfitta sociale. Per tutti. Per le forze dell'ordine, cui va riconosciuto il merito di avere individuato e braccato il sospetto in soli quattro giorni, al termine di un'autentica caccia all'uomo: partita dalle prove del Dna e arrivata fino alle intercettazioni telefoniche che hanno permesso di scoprire il suo piano di fuga via treno. Per gli stessi familiari e amici della vittima, che hanno commentato con enorme dignità a margine delle esequie: «Così non c'è stata giustizia». Ed hanno ragione, perché il destino di un rapinatore omicida è quello di subire un giusto processo e poi di finire dietro le sbarre per tutto il resto della sua vita (magari evitando attenuanti, sconti di pena, arresti domiciliari e altri fantasiosi ritrovati per farlo uscire anticipatamente di galera), non di ammazzarsi in una cella.
Alla faccia della sorveglianza
Ma la sconfitta principale, lo abbiamo scritto all'inizio di questo articolo, è quella dello Stato. Che prima non ha saputo proteggere l'incolumità di un onesto gioielliere durante il suo lavoro, poi non ha impedito la morte di un altro uomo che era in sua custodia. Non si può accettare che qualcuno muoia nelle mani dello Stato: mai, nemmeno il più efferato dei killer. Davvero macabramente ironico, poi, che tutto ciò sia avvenuto nel «reparto Grande sorveglianza» del carcere, dove l'attestato doveva essere controllato a vista ogni quindici minuti in attesa dell'interrogatorio di garanzia. Poche ore dopo, ultima beffa, con la stessa modalità si è tolto la vita anche un altro arrestato: un 18enne straniero accusato dell'omicidio del parrucchiere dei vip Mario Pegoretti. Entrambe le sconfitte, la morte del gioielliere e quella del suo presunto killer, hanno una causa in comune: la mancanza di organico della polizia. Non ci sono abbastanza poliziotti per garantire la sicurezza nelle vie dello shopping di Prati, non ce ne sono abbastanza nemmeno per sorvegliare a dovere i detenuti di un carcere. Così, da ieri, lo Stato italiano ha due morti in più sulla coscienza. Altre due morti.
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