Gelmini: «Basta con gli sprechi nella scuola»
Il ministro dell’Istruzione denuncia: «Ogni anno potremmo risparmiare un miliardo e trecentomila euro per le pulizie»
Il ministro dell’Istruzione non aveva fatto in tempo a pronunciare la frase «i bidelli tornino a pulire le scuole» che l’Aduc, l’associazione per i diritti degli utenti e dei consumatori, si lanciava in una crociata a colpi di comunicati con cui inondare Internet e redazioni per plaudire all’uscita di Maristella Gelmini.
Un aspetto colpisce più degli altri nelle reazioni all’intervento del ministro dell’Istruzione, quasi tutte di segno positivo: oltre al merito di aver messo il dito sulla piaga dei risparmi che si dovrebbero fare e invece non si fanno, in molti, delle parole della Gelmini, hanno apprezzato soprattutto quel rimando all’antico che le ha suggerito di tornare a chiamare «bidelli» i bidelli.
«I bidelli, ovvero i collaboratori scolastici, sono stati così definiti dal buonismo di turno», ha tenuto subito a precisare Primo Mastrantoni, segretario dell’Aduc, per mettere a fuoco che quello che è piaciuto del cambio di marcia ministeriale è stato in particolar modo l’aspetto nominale, la riedizione del »bidello», la bocciatura del «collaboratore scolastico». Insomma il lessico, in questo caso, è venuto prima del quesito su chi deve occuparsi della pulizia delle scuole.
Anche noi insistiamo molto su un aspetto che apparentemente può apparire marginale, ma marginale non è.
Una delle ragioni è che il passaggio da «bidello» a «collaboratore scolastico», dal punto di vista normativo ha cambiato poco o nulla nelle funzioni affidate a questa categoria che opera da sempre nella scuola, ma invece ha cambiato molto dal punto della cultura, cioè della consapevolezza del ruolo che svolge chi è impegnato in quel lavoro.
Ben diversamente sarebbero dovute andare le cose se non ci si fosse voluti limitare ad un cambio nominale che ha provocato solo equivoci.
In pratica è successo, invece, che nessuno ha offerto agli ex bidelli diventati «collaboratori scolastici» l’opportunità di seguire volontariamente un corso di formazione che, in ipotesi, avrebbe potuto fare di alcuni (o molti di loro), dei veri e propri coadiutori dell’insegnamento (mi viene in mente l’insegnamento del codice della strada, l’approccio al risparmio energetico, l’educazione del tifoso ecc.).
Insomma ai bidelli non è stata data nessuna possibilità di imparare un altro mestiere. Semplicemente, in nome di quello che il segretario dell’Aduc chiama «buonismo» si è dato al loro lavoro un nome diverso. Con il risultato che tutti, tempo addietro, sapevano quali fossero i compiti assegnati a un bidello; mentre ora nessuno sa che cosa deve fare un «collaboratore scolastico».
Che cosa abbia comportato questo gioco delle tre carte culturale lo sa bene chiunque abbia una qualche frequentazione con la scuola, anche se limitata ad accompagnare i propri figli la mattina. Con il cambio di etichetta i collaboratori scolastici hanno acquisito una sola certezza: sanno «cosa non devono fare».
Quindi nessuna meraviglia se fra quello «che non devono fare» ci siano finite anche le pulizie, in barba al fatto che a norma di regolamento pulire aule e corridoi rientri pienamente nei loro doveri.
Che è appunto quello ha ricordato loro la Gelmini.
Ma le stratificazioni culturali sono più dure della pietra da scalfire, ed ecco perché quello che sembra solo un aspetto lessicale finisce per fare danni che vanno ben al di là degli aspetti formali.
Il guaio è che tutto l’edificio della scuola italiana poggia da decenni le sue basi su artifici economico-culturali. Prendiamo il caso degli insegnanti. In cambio di uno stipendio ai limiti della sopravvivenza, la scuola ha consegnato loro la gioventù italiana a scatola chiusa, mettendoli al riparo da qualsiasi valutazione sul loro operato.
Penso che dovrebbe essere ancora impressa nella memoria l’esperienza dell’allora ministro dell’istruzione di sinistra, Luigi Berlinguer: per aver chiesto come contropartita di un aumento di stipendio una verifica sul grado di aggiornamento ad insegnanti che magari stavano in cattedra da venti- trenta anni senza aver mai fatto un tagliando: fu messo frettolosamente alla porta dal suo partito, per poi essere fatto sparire definitivamente dalla scena politica.
Vogliamo parlare dei presidi, ai quali è stata messa in mano l’autonomia scolastica? Ma di che autonomia stiamo parlando, visto che sono impotenti nei confronti di quell’altra autonomia, ben più sostanziale della didattica, non avendo armi per correggere gli eventuali errori nell’insegnamento prodotti da chi, teoricamente, dovrebbe essere sottoposto al loro controllo?
Vogliamo parlare dei sindacati della scuola, che non hanno battuto ciglio finora davanti al miliardo e trecentomila euro spesi per affidare esternamente le pulizie? Soldi che ogni anno vanno ad ingrassare imprese spesso condotte da chi tiene alto il proprio prestigio cittadino ponendosi alla guida di altolocate squadre di calcio?
In conclusione, che cosa vogliamo dimostrare con questa succinta panoramica sui mali della scuola? Che il peggio è cominciato dal momento in cui i bidelli hanno cominciato a chiamarsi «collaboratori scolastici»? Non è certo rispolverando figure di bidello come quello interpretato da Aldo Fabrizi nel film »Mio figlio professore» che si possono sciogliere i nodi di una istituzione che ormai vive una crisi endemica.
Chiamare le cose con il loro nome e chiedere a chi è pagato per fare un lavoro di svolgerlo, è comunque un primo passo. E la Gelmini si merita i giusti riconoscimenti per averlo fatto.
Sempre che non ci si fermi ai bidelli, cioè all’ultimo anello della catena. Per ottenere qualche risultato bisogna risalire tutta la filiera, mettendo il mondo della scuola davanti alle proprie responsabilità, ma nello stesso tempo mettendo a sua disposizione i mezzi per farvi fronte.
Il compito è esistenziale. Se non si riporta al più presto la scuola al centro degli interessi del paese tanto vale cominciare ad esercitarsi a trovare definizioni «buoniste» per sbocchi che, nudi e crudi e senza correttivi, saremo costretti a chiamare «declino del paese », «perdita di competitività», «deficit culturale».
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