19 aprile 2024
Aggiornato 00:00

Legambiente sull'influenza suina

«Solo abolendo il sistema d’allevamento intensivo industriale si fermeranno le epidemie animali»

«L’allevamento intensivo industriale prevede la produzione di carni e derivati animali attraverso un vero e proprio sistema di detenzione in edifici di cemento di migliaia di animali della stessa specie, della stessa razza, della stessa età e dello stesso sesso, in ambienti minimi, illuminati artificialmente, assolutamente inadeguati anche per le esigenze primarie delle specie allevate – ha dichiarato Francesco Ferrante, responsabile agricoltura di Legambiente -. La somministrazione forzata di cibo sottoforma di mangime, più spesso chimico che naturale, e la spaventosa concentrazione di nitrati difficilmente smaltibili in modo consono, contribuiscono allo sviluppo di virus sempre più forti e pericolosi prima per gli animali e poi, con le successive modifiche, per gli uomini».

Già negli anni ’90, la comunità europea aveva tentato di porre dei rimedi a questo stato di cose con alcune direttive importanti, mirate alla mitigazione degli impatti sanitari e ambientali di questo modello di allevamento. «Ma la direttiva nitrati del 1991, come la successiva direttiva sul benessere animale o la messa la bando della gabbie per le galline ovaiole - ha sottolineato Ferrante - non hanno mai trovato applicazione effettiva negli Stati membri e in Italia addirittura non si riesce a imporre la necessaria regolamentazione sui nitrati che continuano a inquinare terreni e falde acquifere se non i prodotti alimentari veri e propri».

Non è bastata nemmeno l’esperienza dell’influenza aviaria, che tra il 2005 e il 2006 col virus H5N1 sterminò 300milioni di volatili e uccise molte persone, soprattutto nei paesi più poveri, a farci tornare ad un modello di produzione alimentare più sostenibile e equilibrato. Ancora oggi, vediamo in alcuni paesi del Veneto allevamenti che contano per 28mila polli per chilometro quadrato, o 10mila maiali stipati in 7mila metri.

«Eppure – ha continuato Ferrante - ogni operatore del settore sa che questo metodo di allevamento oltre a produrre una cattiva qualità di derivati animali, impone una selezione delle razze sempre più dipendenti dagli interventi dell'uomo, dal consumo di antibiotici, da una gestione sempre più articolata e innaturale dei reflui e dei nitrati, causa della produzione di virus e malattie».

Il tentativo spasmodico di aumentare i profitti continuando a comprimere i costi di produzione è responsabile della pericolosa pratica di immissione nelle diete alimentari degli animali di sottoprodotti industriali come le farine animali, di prodotti geneticamente modificati (che costano meno anche per facilitarne la diffusione e il consumo), di oli esausti. Pratica questa che non ci ha risparmiato le emergenze alimentari per i polli alla diossina, i casi di mucca pazza, il commercio più o meno illegale di vitelloni dopati o di uova all'antibiotico.

«Evidentemente - conclude Ferrante - il modello agricolo della chimica negli allevamenti intensivi senza regole è arrivato al capolinea. E’ urgente un radicale ripensamento del settore che metta al centro la qualità e l’equilibrio con la natura, in modo da poter avere prodotti buoni e sicuri per la salute. Ciò, inevitabilmente, determinerà anche il cambiamento di alcune nostre consolidate abitudini alimentari. Ma non ci sono scorciatoie. E’ urgente intervenire, e lo confermano anche numerosi medici e studiosi del settore».