28 agosto 2025
Aggiornato 04:30
Lo scenario post-Bush secondo Sergio Fabbrini

Un nuovo ruolo per l'America nel mondo

«L’America del dopo Bush è già quella del presente, quella che ha permesso la svolta del 2006, quella che ha portato i democratici americani a riconquistare la maggioranza al Congresso»

«Come sarà l’America dopo Bush?», questa la domanda a cui Sergio Fabbrini è stato chiamato a rispondere di fronte alla nutrita platea della Scuola politica del Partito Democratico. Il professore però non replica al quesito e, anzi, ne corregge la formulazione. Quasi una provocazione, ma giustificata e necessaria. Secondo Fabbrini l’America del dopo Bush non inizia il prossimo 4 novembre, quando un nuovo inquilino metterà piede nella Casa Bianca. L’America del dopo Bush è già quella del presente, quella che ha permesso la svolta del 2006, quella che ha portato i democratici americani a riconquistare la maggioranza al Congresso.

La puntualizzazione è opportuna per mettere in chiaro un primo punto. Importante e fondamentale. «Il presidente è un attore importante, - precisa Fabbrini - ma opera all’interno di un sistema di poteri. Alcuni dei quali sono detenuti appunto dal Congresso». Il professore tenta, prima di tutto, di sfidare alcuni luoghi comuni che impediscono che la complessità del sistema politico americano possa essere compreso in pieno dall’Europa. Il peso del Presidente è innegabile, ma altrettanto lo è quello del Congresso. Impossibile scinderli. La democrazia americana si basa su «istituzioni separate che condividono lo stesso potere», che si contrappongono e si equilibrano a vicenda e che permettono la sopravvivenza di una delle democrazie più grandi del mondo. Una democrazia che è riuscita a trovare il suo punto d’equilibrio, nonostante regoli la vita di un paese esteso, complesso e dalle infinite differenze.

Nel suo intervento Fabbrini insiste nel ricordare la peculiarità fondante degli Stati Uniti, che sembra trovare la migliore rappresentazione nella definizione di Madison: «Una repubblica di molte repubbliche» dove è possibile il bilanciamento tra diverse maggioranze che si contrappongono e si moderano.

La politica estera è la combinazione dell’interpretazione della situazione internazionale e la sintesi dei rapporti di forza a livello nazionale. Su questa base Fabbrini tenta di spostare nuovamente i paletti che il pensiero comune attribuiscono al periodo di amministrazione di Bush come quello dell’unilateralismo statunitense in politica estera. «In realtà – sostiene Fabbrini – la politica unilaterale americana è iniziata già ai tempi di Clinton» e solo la presidenza dei democratici ha permesso di contenere l’intransigenza espressa dal Congresso, al tempo dominato dai repubblicani.

Ancora una volta, dunque, Fabbrini cerca di focalizzare l’attenzione sulla complessità di un sistema politico unico nel suo genere. Regolato per lo più da una carta costituzionale che, a parte gli emendamenti che via via ne hanno specificato o ampliato alcuni contenuti, è stata redatta con la lungimirante consapevolezza che avrebbe permesso la regolazione di una società stratificata e organica.

Tuttavia la rilevanza del ruolo giocato dagli Stati Uniti sul piano internazionale non è sottovalutato. Se infatti il mondo economico è multipolare, mentre quello culturale è frammentato e senza un centro facilmente individuabile, il controllo della sicurezza internazionale è, secondo il politologo, unipolare e in mano agli Stati Uniti. E ciò non è necessariamente un male. Anzi.

«E’ bene - dice il docente di Scienze politiche dell’Università di Trento - che la sinistra europea abbandoni le aspirazioni multipolari per le risoluzioni delle tensioni internazionali». Basta favorire quel processo che spinga la forza unipolare, in questo caso detenuta dagli Stati Uniti, ad aprirsi a soluzioni plurilaterali. L’esatto contrari della politica neocon di Bush, che ha invece coniugato l’unipolarismo derivato con l’unilateralismo intransigente. In definitiva, secondo Fabbrini, è bene che la forza militare sia controlla da regimi democratici, purché quella stessa forza venga condivisa.

A chi domanda se con Barack Obama l’immagine dell’America cambierà agli occhi del mondo, Fabbrini non ha dubbi. Il fenomeno di Barack Obama è emblematico, come tutta l’esperienza delle primarie democratiche. Esperienza che è l’esempio ultimo di una sintesi di correnti che vivono vivacemente in uno dei due grandi partiti che formano il panorama politico a stelle e strisce.

Una varietà di ideali e ispirazioni che formano la società americana e ne disegnano il futuro. Una varietà in cui il riformismo trova il suo giusto quadro in una definizione di Robert Duss che Fabbrini usa per congedarsi dalla platea accorsa ad ascoltarlo. «Il conservatore intorno a sé vede solo vincoli, il rivoluzionario vede solo possibilità e il riformista, invece, vede le possibilità entro i vincoli».

Giacomo Rossi