Il piatto con l’inganno
Le famiglie italiane portano ogni anno in tavola 60 miliardi di euro di prodotti stranieri, falsi «made in Italy», tarocchi e «clandestini», ma non lo sanno
LECCE - Una ricerca della Cia mette in evidenza una situazione sempre più difficile per le nostre produzioni agroalimentari. Il 50 per cento della spesa è «anonima». L’etichetta non è «trasparente» e l’origine in molti casi è una pura utopia. Due prosciutti su tre vengono venduti per nazionali, ma sono prodotti con maiali esteri. Due formaggi su quattro sono prodotti con latte importato. Più del 35 per cento del grano duro utilizzato dalla nostra industria molitoria per la pasta viene da oltre confine. Importazioni «pericolose», soprattutto dalla Cina, generano un business di 2 miliardi di euro l’anno e mettono a rischio la salute. Anche a livello internazionale il nostro agroalimentare è sotto assedio dell’agropirateria dell’«italian sounding».
Ogni mese le famiglie italiane, senza saperlo, portano sulle tavole prodotti stranieri, falsi «made in Italy», «clandestini» e anche «pericolosi» e spendono più di 5 miliardi di euro, per un totale annuo di oltre 60 miliardi di euro, il 25 per cento in più della nostra produzione lorda vendibile e poco meno della metà del valore dei consumi alimentari nazionali. Quattro prodotti agroalimentari su dieci sono realizzati con materia prima estera e uno su tre è un vero e proprio «tarocco». E’ quanto emerge da un’indagine condotta dalla Cia-Confederazione italiana agricoltori che, in occasione della quarta Conferenza economica di Lecce, ha denunciato una situazione non più tollerabile. In questo modo s’ingannano giornalmente milioni di consumatori e si danneggia il lavoro dei produttori agricoli. Basta un dato per comprendere la complessità del problema: in oltre il 50 per cento della spesa l'etichetta è «anonima».
Siamo in presenza di una vera «invasione» che le famiglie del nostro Paese -afferma la Cia- subiscono. Non solo. Pagano alimenti che vengono spacciati per italiani e, invece, non lo sono. A tavola, quindi, con l’inganno. Ogni nucleo familiare spende più di 185 euro al mese per costruire un menù che, alla fine, risulta per più del 40 per cento non «made in Italy». E tutto ciò perché in Italia, complici anche assurde e farraginose norme Ue, non tutti gli alimenti hanno una loro «carta d’identità», un’etichetta trasparente dove sia indicata con chiarezza l’origine, la provenienza. La questione, però, è che gli stessi prodotti etichettati vengono camuffati per italiani e diventano «falsi» che arrivano sulle tavole e i consumatori ne sono completamente all’oscuro.
Casi eclatanti sono quelli dei prosciutti (due su tre vengono prodotti con maiali stranieri e sono venduti per italiani), dei formaggi (due su quattro sono prodotti con latte estero), delle mozzarelle (circa il 45 per cento sono fatte con latte e anche cagliate provenienti dall’estero), della pasta (più del 35 per cento del grano duro utilizzato dalla nostra industria molitoria viene da paesi stranieri), del latte a lunga conservazione (più del 60 per cento delle confezioni vengono oltre confine), della carne ovina (un agnello su tre viene da paesi stranieri). C’è, poi, la questione dell’aglio. Oltre l’80 per cento di quello venduto in Italia viene spacciato per nazionale, ma, al contrario, è di origine estera e soprattutto viene prodotto ed esportato, anche attraverso strane triangolazioni, proprio dalla Cina.
Un’«invasione» che non «pesa» soltanto sulle tasche degli inconsapevoli italiani. A pagarne lo scotto -avverte la Cia- sono anche gli agricoltori del nostro Paese che ogni anno subiscono un danno che si avvicina ai 6 miliardi di euro, poco meno di un terzo del valore aggiunto agricolo nazionale.
E così per ogni prodotto agricolo realizzato nei campi o negli allevamenti italiani, si genera, tra contraffazioni e imitazioni, un business cinque volte più grande. A ciò si deve aggiungere che accanto ad un export di 20 miliardi di euro dell’agroalimentare «made in Italy» troviamo più di 60 miliardi di euro «prodotti» dalle falsificazioni, dall’«italian sounding» nel mondo. Il fenomeno dei prodotti che di italiano hanno solo il nome. Vale a dire quei cibi e quelle bevande che, grazie a una normativa internazionale quantomeno lacunosa, vengono prodotti e venduti utilizzando in maniera impropria parole, immagini, marchi e ricette che si richiamano all'Italia. Ma che non hanno nulla a che fare con la nostra cucina. Non solo una falsa garanzia per i consumatori stranieri, ma soprattutto un danno enorme per le aziende del nostro Paese.
E l’assalto dell’agropirateria sui mercati internazionali è crescente. Dai prosciutti all’olio di oliva, dai formaggi ai vini, dai salumi agli ortofrutticoli è un continuo di «falsi» che rischiano di provocare danni rilevanti soprattutto alle nostre Dop (Denominazione d’origine protetta), Igp (Indicazione geografica protetta) e Stg (Specialità tradizionale garantita), che rappresentano la punta di diamante del «made in Italy» nel mondo. Ormai non c’è più da stupirsi nel ritrovare, anche attraverso Internet, il Prosciutto di Parma, il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano prodotti in Argentina, in Australia o, addirittura, in Cina.
E gli «agropirati» si camuffano dietro le sigle più strane e singolari. Si va dal Parmesao (Brasile) al Regianito (Argentina), al Parma Ham (Usa), al Daniele Prosciutto & company (Usa), dall’Asiago del Wisconsin (Usa) alla Mozzarella Company di Dallas (Usa), dalla Tinboonzola (Australia), alla Cambozola (Germania, Austria e Belgio), al Danish Grana (Usa).
Facciamo i conti -afferma la Cia- con un colossale business. Solo negli Stati Uniti il giro d’affari relativo alle imitazioni dei formaggi italiani supera abbondantemente i 3 miliardi di dollari. E il danno, purtroppo, è destinato a crescere, visto che a livello mondiale ancora non esiste una vera difesa delle nostre Dop, Igp e Stg, che comprendono formaggi, oli d’oliva, salumi, prosciutti e ortofrutticoli. Una difesa che non significa soltanto la tutela di un patrimonio culturale, dell’immagine stessa dell’Italia, ma anche la valorizzazione di un settore economico che ha un fatturato al consumo di circa 9 miliardi di euro ed un export di 2 miliardi di euro.
Ma non è unicamente un problema di «falsi» e di «tarocchi» vari del «made in Italy». E’, infatti, anche allarme per il fatto che ogni anno entrano nel nostro Paese prodotti alimentari «clandestini» e «pericolosi» per oltre 2 miliardi di euro. Poco meno del 5 per cento della produzione agricola nazionale. I sequestri da parte delle autorità competenti italiane nel 2009 sono più che triplicati rispetto all’anno precedente, ma il rischio di portare a tavola cibi «a rischio» e a prezzi «stracciati» è sempre più incombente. I più colpiti dalle sofisticazioni sono i sughi pronti per la pasta, i pomodori in scatola, il caffè, la pasta, l’olio di oliva, la mozzarella, i formaggi, le conserve alimentari.
E l’allarme maggiore è per ciò che proviene dalla Cina che, nonostante il calo delle esportazioni «ufficiali» in Italia nel 2009 (meno 12 per cento), riesce a far entrare nella Penisola grandi quantità di prodotti che possono mettere a repentaglio la salute, oltre a provocare gravi danni all’economia agricola nazionale.
Troppa merce entra «clandestinamente» e attraverso strane «triangolazioni». Ma quello che è più grave è che arrivano prodotti alimentari di scadente qualità e soprattutto non sicuri sotto l’aspetto della salubrità. Ci troviamo a fronteggiare una vera invasione di alimenti e prodotti agricoli che, poi, grazie all’incessante opera delle forze dell’ordine, in tantissimi casi vengono sequestrati. Però, molti finiscono sulle nostre tavole, anche a causa della crisi che spinge i consumatori ad acquistare prodotti a basso costo e di dubbia provenienza.
Davanti a questi problemi -afferma la Cia- occorre immaginare un approccio diversificato alla tutela delle nostre produzioni di qualità. Tra gli strumenti a disposizione vi sono i rapporti bilaterali con i paesi partner, le sinergie di sistema tra produttori e distributori, il rafforzamento della tutela legale contro i fenomeni dell’agropirateria. E’ necessario, in primo luogo, impostare una vera politica commerciale, che fissi obiettivi e priorità oggi non ancora evidenti in Italia. Le attività di promozione devono essere considerate una parte del tutto, non devono sostituirsi ad una visione complessiva, di sistema, della valorizzazione dell’economia agroalimentare italiana di qualità.
Non serve innalzare barriere protezionistiche che a loro volta scatenerebbero altre «guerre commerciali», ma occorre «tolleranza zero» nei confronti della concorrenza sleale fondata sulla falsificazione, sulla sofisticazione e sul dumping sociale e lavorare in funzione della trasparenza, della qualità. Da qui l’esigenza per tutti i prodotti di un’etichetta chiara e con l’obbligo dell’indicazione d’origine.
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