Senza innovazione azienda Italia a rischio
Per gli industriali a convegno solo nelle tecnologie c’è futuro
Ha ragione il Presidente della Repubblica a guardare con apprensione al progressivo regredire dei consumi delle famiglie. Solo quindici giorni fa l’Istat ha reso noto che sono precipitati anche quelli alimentari, solitamente considerati anelastici o addirittura anticiclici, vuol dire che di fronte alle difficoltà, la gente si sente più attratta dal cibo come la forma di compensazione al prezzo più accessibile.
L’ultimo dato fornito dall’Istat conferma che invece abbiamo superato quell’ultima trincea messa a difesa del modello di vita a cui siamo abituati. Secondo la confederazione italiana degli agricoltori si assiste infatti ad un impoverimento del budget di spesa reso palpabile da questi tre dati: quattro famiglie su dieci hanno tagliato drasticamente la spesa alimentare, il 60 per cento ha cambiato menù, mentre il 35 per cento è stato costretto ad optare per prodotti di qualità inferiore.
Questo quadro sui consumi alimentari è preoccupante perché mette allo scoperto lo stato di disagio in cui versano molte famiglie italiane, ma è anche l’ennesima conferma che il meccanismo dello sviluppo si inceppato e non tornerà ripartire se non quando si riformerà quella circolarità fra risparmio, consumi e produzione che ne costituiscono il fondamento.
Quindi per prima cosa, per conservare l’occupazione e far ripartire gli investimenti bisogna mettere più soldi nelle tasche delle imprese e in quelle della gente per stimolare i consumi.
E’quello che sta cercando di fare il governo attraverso la Finanziaria in discussione al Senato, dove si assiste all’estenuante tentativo dei vari ministri di allungare una coperta che comunque resta corta. Il ministro Tremonti ha infatti ricordato a tutti che siamo destinati a lasciare al freddo, se va bene, o la testa o i piedi, avendo ignorato per anni che vivere a debito significa prima o poi pagarne lo scotto. Salvo coltivare l’idea di dare una fregatura a chi ci ha prestato i soldi, che si può anche fare, ma si finisce come l’Argentina.
Ma se la situazione è questa, ed è questa, che cosa bisogna fare, se non mettersi a tavolino e stabilire che quei quattro soldi che sono rimasti in cassa debbano essere spesi nel migliore dei modi?
Intanto, bisogna precisare dire che l’Italia non è l’Argentina. Ha un sistema industriale che la sostiene, un sistema bancario che ha sofferto meno degli altri della crisi, e un risparmio delle famiglie ancora fra i più elevati al mondo. Anche se sbaglia chi ritiene che il risparmio delle famiglie possa compensare il debito pubblico. E’ un calcolo che si giustifica solo se si ipotizza che il salvadanaio delle famiglie possa un giorno essere chiamato a coprire eventuali aritmie sul versante dei tassi di interesse. E’ però una eventualità da escludere visto che l’unica via per realizzare un tamponamento di questo tipo sarebbe aumentare le tasse, ma l’imposizione fiscale è già così alta da non consentire alcun margine di manovra su questo fronte.
Con un debito pubblico che non consente altri sforamenti, e con le tasse al limite massimo, l’unico spazio nel quale ci si può muovere resta dunque la produzione.
In una famiglia, nella stessa condizione dell’Italia, si ridirebbe: ragazzi, qui bisogna lavorare di più. Il discorso vale anche per lo Stato che se è molto più complesso.
Vediamo a che cosa può corrispondere per un Paese come l’Italia l’affermazione «lavoriamo di più». E’ escluso che possa equivalere a «produciamo di più». Abbiamo visto che servirebbe solo a gonfiare il magazzino poiché i consumi sono fermi.
Si può invece tradurre in un «produciamo meglio». Nella pratica questo obiettivo si realizza in due modi:
primo, si deve aumentare la «produttività», cioè si deve riuscire a sfornare lo stesso prodotto in minor tempo e quindi ad un costo inferiore;
secondo si deve rinnovare la produzione per stimolare con le novità gli appetiti del mercato ed essere più competitivi rispetto alla concorrenza.
E’chiaro che le maggior garanzia di trovare stabilità per il presente e garanzie per il futuro si ottiene soprattutto con la seconda condizione.
Il problema è che innovare difficilmente lo si può fare da soli. E ancora più difficilmente lo può fare, senza alcun sostegno esterno, quel tessuto imprenditoriale italiano composto per l’ 85-90 per cento di imprese di piccole dimensioni.
Ed ecco che si arriva alla necessità di mettersi a tavolino per studiare come spendere nel miglior modo possibile i pochi quattrini a disposizione.
Intanto una famiglia che fosse nelle condizioni in cui è l’Italia la prima cosa che farebbe sarebbe quella di dire «mangiamo pane e cipolla, ma la prima cosa da fare è mandare a scuola il figlio perché abbiamo visto che fine ha fatto il padre che ha perso il posto non avendo né istruzione, né specializzazione».
Rapportato alle scelte che deve fare il Paese equivarrebbe a dire : »siamo stati già fortunati che con la fantasia e la buona volontà degli italiani siamo riusciti a stare in piedi. Ma da oggi la musica deve cambiare, dobbiamo concentrarci su quei prodotti che sono meno imitabili e guardano al futuro: in altre parole dobbiamo puntare sulle nuove tecnologie. Ma per farlo dobbiamo considerare prioritario l’unico mezzo che può farci raggiungere l’ obiettivo, dobbiamo investire una buona parte dei nostri scarsi quattrini nella ricerca».
Gira nel Palazzo questo ragionamento? Rispondono le cifre: siamo fermi, nella ricerca, all’1,3 del Pil. La Francia investe il doppio di noi. Israele mette sul piatto del suo futuro addirittura il 4,68 della ricchezza prodotta in un anno.
E’ una disparità che dura ormai da anni. Una sottovalutazione che non è il frutto della crisi: quel misero 1,3 per cento nessuno ha pensato di migliorarlo nemmeno quando le vacche erano grasse.
Dunque, non ci sono i soldi per investire nel futuro. C’è perlomeno la volontà di non lasciarsi sfuggire il presente?
Oggi il Sole24Ore riporta la notizia che la Tunisia ci ha già battuti in investimenti nell’innovazione e che la Libia sta puntando tutto sulla rete in fibra ottica.
Siamo sicuri di essere ancora nella sponda più sviluppata del Mediterraneo? si è chiesto Alberto Orioli l’editorialista del Sole.
La risposta è arrivata puntuale dal governo: aveva fissato 800 milioni euro per fare arrivare la banda larga al 97 per cento degli italiani. Si è affrettato a depennarli.
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