La crisi e la politica del freno a mano
Le turbolenze di mezza estate delle borse mondiali non accennano a placarsi, nonostante sporadici e temporanei rialzi, e il mondo sta scivolando in difficoltà economiche senza precedenti
Le turbolenze di mezza estate delle borse mondiali non accennano a placarsi, nonostante sporadici e temporanei rialzi, e il mondo sta scivolando in difficoltà economiche senza precedenti. Tanto più è impressionante l’inerzia del governo di centro-destra - viceversa voracemente interventista in senso restauratore nelle vicende personali e particolaristiche a tornaconto del premier - di fronte all’aggravarsi della crisi finanziaria internazionale e al suo progressivo trasformarsi in recessione vera e propria.
Il «decisionismo autoritario» di cui dà prova il duo Berlusconi-Tremonti - con la profonda interconnessione tra misure in materia giudiziaria a beneficio del capo del governo, anticipo di una manovra triennale di 36 miliardi di tagli a danno di tutti i cittadini, soluzione da «compagnia di bandierina» escogitata per Alitalia a svantaggio di utenti, contribuenti, lavoratori - ancora una volta si rivela a senso unico.
Al servizio, cioè, di una visione «sultanesca», «probusiness» e «restauratrice» della politica italiana e di totale misconoscenza dell’interesse pubblico nazionale correttamente inteso, di cui è testimonianza anche il pasticcio Alitalia, mediante il quale si arriva a modificare la legge sui fallimenti industriali per consentirne la svendita delle parti più redditizie e a decretare la sospensione a tempo della normativa antitrust.
Eppure la situazione che si sta profilando a livello internazionale richiederebbe che ad essa venissero destinate tutte le energie, con misure tempestive assai diverse dal mero gridare all’untore della speculazione che finisce con l’esimere dal misurarsi con la ben altrimenti seria e profonda complessità dei problemi aperti.
Emerge, infatti la vulnerabilità di un intero modello di sviluppo, quello che ha guidato la crescita mondiale negli ultimi anni e che ha portato a concentrare negli Usa le fonti di instabilità.
La politica di alti tassi di interessi praticata dalla Federal Reserve dal 2001 - con l’occhio alle esigenze poste da Wall Street dopo lo scoppio della bolla «dot-com» - ha generato squilibri di ogni tipo. Squilibri interni (eccesso di indebitamento delle famiglie americane con quasi un quinto dei mutui andati a soggetti senza capacità di ripagare) ed esterni (il deficit delle partite correnti Usa è passato dall’1,5% del Pil nel 1995 al 6% nel 2006), più un’inflazione in rapido aumento, anche in conseguenza della svalutazione del dollaro e dell’esplosione dei prezzi del petrolio e dei beni alimentari.
La bassa inflazione degli anni immediatamente precedenti si rivela un frutto, assai più che della credibilità ant-inflazionistica della Fed, della globalizzazione che, con la complementarietà della crescita degli Usa e di quella della Cina (verso cui sono state delocalizzate le produzioni), ha consentito alle imprese americane una straordinaria riduzione dei costi di produzione i cui effetti sono stati insufficientemente trasferiti ai consumatori americani e hanno, invece, alimentato un eccezionalmente alto e persistente incremento dei profitti.
Sul fronte finanziario la proroga al 2010 del termine entro cui le banche potranno contabilizzare formalmente le operazioni condotte «fuori bilancio» (ammontanti a 5000 miliardi di dollari) dimostra che l’incertezza si protrarrà a lungo, emergendo in particolare la preoccupazione che le operazioni gestite finora da società veicolo al di fuori dei bilanci delle banche promotrici celino perdite ancora più cospicue, tali da costringere la banche stesse a nuove ricapitalizzazioni, il che aggraverà i già seri problemi di liquidità. Il sistema bancario, infatti, dopo aver contribuito all’esplosione abnorme del mercato dei derivati (in alcune annualità cresciuto del 113%), oggi sperimenta una crisi di fiducia e i finanziamenti reciproci sono diventati più onerosi, mentre la banche centrali - sotto accusa per le passate omissioni in materia di controlli, trasparenza e vincoli regolamentari - stanno facendo ora ciò a cui avrebbero dovuto ricorrere cinque o sei anni fa, cioè ridurre l’incremento della liquidità.
È in questa delicatissima situazione che si collocano l’attivismo particolaristico-restauratore e l’inerzia verso il bene comune nazionale del duo Berlusconi-Tremonti. Eppure, a far le spese della evoluzione internazionale sono soprattutto l’Italia e l’Europa la quale vede oggi, per la prima volta da quando esiste l’Euro, un decremento del Pil dello 0,2%.
Proprio questo, dunque, sarebbe il momento di adottare per l’Italia e per l’Europa - a dispetto di tutto il sarcasmo che l’interventista a senso unico Tremonti riversa sul nome di Keynes - una prospettiva «neo-keynesiana» a scala europea, in grado di contrastare la finanziarizzazione dell’economia e di poggiare sulla «domanda interna» per consumi e per investimenti.
Una prospettiva neo-keynesiana, di sobrietà finanziaria e di sviluppo sostenibile, su cui il centrosinistra italiano dovrebbe puntare molto di più facendone la chiave della ricostruzione di quel profilo ideativo, progettuale e culturale di cui c’è un disperato bisogno. Una prospettiva neo-keynesiana che spinga domanda e offerta all’elevamento della qualità della vita e che, quindi, faccia delle potenzialità inespresse la leva per la trasformazione del modello di sviluppo: risorse ambientali, beni culturali, servizi, tutti fattori per la cui alimentazione l’Italia abbonda di prerequisiti ma scarseggia di determinazione e di risorse.
È ora di sfruttare maggiormente gli elementi rimasti fin qui latenti della forza e della preveggenza del disegno dell’euro - tra i cui ideatori vi furono personalità quali Delors e Ciampi - anche attraverso l’emissione di obbligazioni europee e il ricorso a nuove forme non particolaristiche-autoritarie di intervento pubblico (tra cui - perché no? - un Fondo sovrano europeo).
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