27 agosto 2025
Aggiornato 13:30
Tumore alla prostata

Cancro alla prostata: i nuovi farmaci che possono migliorare sopravvivenza e qualità della vita

I risultati di una nova ricerca presentata al Congresso Nazionale AIOM che mette in luce una nuova tipologia di farmaci che migliora nettamente la qualità della vita dei pazienti

Cancro alla prostata: i nuovi farmaci
Cancro alla prostata: i nuovi farmaci Foto: Shutterstock

Una diagnosi di tumore ha sempre un impatto negativo sulla propria salute, anche quando le cure non sono ancora iniziate. Se poi si tratta di una forma cancerogena in cui si evidenziano anche metastasi sparse in varie parti del corpo, la situazione divine estremamente pesante. Ma la sopravvivenza e la qualità della vita, oggi si possono migliorare. Ecco i risultati di una ricerca della Fondazione ISTUD sulla neoplasia avanzata, presentata recentemente al Congresso Nazionale AIOM.

La vita di un paziente affetto da cancro alla prostata
L’impatto sulla qualità della vita è decisamente importante quando si tratta di cancro alla prostata. Oltre la metà dei pazienti (62%) sente la necessità di stare a letto o seduto su una sedia per alcune ore al giorno. Mentre il 52% dei pazienti trova difficile persino fare una piccola passeggiata, vicino casa. Mentre la stragrande maggioranza (78%) non riesce a fare sforzi quotidiani come prendere borse della spesa.

Le cose stanno cambiando
Per fortuna oggi le cose stanno cambiando e il trattamento del cancro alla prostata può portare a un miglioramento della qualità della vita. «Oggi abbiamo più armi disponibili in un ambito multidisciplinare. Ascoltare e recepire i bisogni dei malati, parte integrante del processo di cura», ha dichiarato Carmine Pinto ex presidente AIOM.

Una sopravvivenza elevata
Nonostante i dati sembrano essere piuttosto allarmanti – 34.800 nuovi casi solo nel 2017 – il cancro alla prostata non causa morti come altri tipi di neoplasie. «La sopravvivenza a 5 anni è particolarmente elevata, pari al 91,4% - continua Carmine Pinto - Oggi abbiamo molte armi a disposizione per sconfiggere o controllare la malattia che spaziano dalla chirurgia, alla chemioterapia, alla radioterapia, alla brachiterapia, fino all’ormonoterapia. E, quando la neoplasia ha dimensioni ridotte e scarsa aggressività, i pazienti possono essere sottoposti a sorveglianza attiva che prevede il monitoraggio attraverso esami specifici e controlli periodici, in alternativa alle terapie radicali. Purtroppo sintomi come la frequente necessità di urinare, il dolore alla minzione e la presenza di sangue nelle urine vengono spesso sottovalutati dai pazienti. Inoltre questi segnali, comuni anche ad altre patologie locali, compaiono solo se la neoplasia è abbastanza voluminosa da esercitare pressione sull’uretra. È difficile quindi che vengano avvertiti quando la malattia è in stadio iniziale e di piccole dimensioni».

Rischio fratture
Inaspettatamente il cancro alla prostata presenta effetti avversi sul sistema muscolo-scheletrico. Infatti, nel 90% le metastasi colpiscono le ossa, aumentando il rischio fratture: «oltre alla messe di farmaci chemioterapici e ormonali, anche di ultima generazione, possiamo trattare con efficacia questi pazienti, se sintomatici, anche con terapie radiometaboliche, oggi disponibili in un ambito di cura sempre più multidisciplinare - continua Sergio Bracarda, Direttore dell’Oncologia Medica di Arezzo e del Dipartimento Oncologico dell’Azienda USL Toscana SUDEST. In particolare, il Radium-223 dicloruro (Ra-223) appartiene a una nuova classe di radiofarmaci ad azione selettiva sulle metastasi ossee. Ra-223 può migliorare la sopravvivenza globale nei pazienti con lesioni ossee dolenti ed emettendo radiazioni alfa, rispetto ad altre terapie, non provoca danni evidenti al midollo osseo che possano condizionare l’ulteriore strategia terapeutica, migliora in modo significativo la qualità della vita anche attraverso un buon controllo del dolore osseo eventualmente presente».

Lo studio
Lo studio in questione è stata condotto dalla Fondazione ISTUD e ha coinvolto circa 50 pazienti affetti da carcinoma prostatico metastatico. Hanno partecipato 4 centri di Medicina Nucleare: Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna, Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona), Policlinico G. Martino di Messina e Policlinico Umberto I di Roma. «L’approccio a una patologia come il tumore della prostata è necessariamente multidisciplinare – sottolinea Giuseppe De Vincentis, della Medicina Nucleare del Policlinico Umberto I di Roma -. Il nostro compito è lavorare in team con l’oncologo e valutare quando e se è appropriato l’uso di un determinato radiofarmaco. La medicina nucleare utilizza sostanze radioattive per colpire le cellule tumorali. A differenza della radioterapia classica però la somministrazione delle radiazioni avviene dall’interno e non dall’esterno. L’idea che siano iniettati dentro l’organismo atomi radioattivi talvolta può spaventare i pazienti, in realtà la procedura è molto sicura». Le dosi, infatti, sono molto basse.

Radioattività di 24 ore
Se da un lato la radioattività può spaventare, è importante sottolineare che tale condizione permane nel paziente per sole 24 ore perché il radio viene eliminato attraverso le feci. «Chi assume radiofarmaci – continua il prof. De Vincentis - deve semplicemente seguire le normali norme igieniche e, soprattutto, lavarsi molto bene le mani prima e dopo essere andato in bagno. In questo modo vengono eliminati liquidi e fluidi che possono avere al loro interno anche una piccolissima quantità di materiale radioattivo. In particolare i radiofarmaci alfa emittenti hanno la capacità di agire solo sui tessuti malati risparmiando tutto ciò che sta attorno. Inoltre le particelle alfa sono molto pesanti, per questo sono in grado di erogare maggiori quantità di irradiazione rispetto a quelle beta utilizzate in passato. Si aprono così nuovi orizzonti nella terapia radiometabolica».

I risultati
I risultati ottenuti sembrano essere stati molto soddisfacenti. Chi ha utilizzato la nuova classe di radiofarmaci ha riportato una migliore gestione del dolore (48% dei casi) e un’elevata energia. «Abbiamo colto una grande disponibilità delle persone a raccontarsi, soprattutto considerando lo stato avanzato della malattia, la durata dei colloqui (in media superiore a 30 minuti) e l’aver affrontato durante la narrazione aspetti clinici e legati al vivere con questa neoplasia, in alcuni casi delineando veri e propri bilanci di vita – afferma Luigi Reale, Coordinatore dei progetti di ricerca dell’Area Sanità e Salute della Fondazione ISTUD -. Questa ricerca nasce con l’obiettivo di ripercorrere il ‘viaggio nelle cure’ (patient’s journey) di persone con carcinoma prostatico in fase avanzata attraverso la voce diretta non soltanto di chi vive questa esperienza (persona con carcinoma alla prostata), ma anche di coloro che prestano assistenza (caregiver, in particolare familiari) e cura (professionisti sanitari). Lavorare sul ‘viaggio nelle cure’ vuol dire avere una visione privilegiata della gestione della malattia, collezionare dati e informazioni per comprendere quali siano le aree critiche per migliorare la qualità e l’efficienza delle cure. Abbiamo utilizzato lo strumento lo Medicina Narrativa perché consente di recuperare il valore del paziente come ‘persona’, ‘individuo’ portatore di una malattia o di una condizione cronica che può modificarne il percorso di vita».

Un aiuto a pazienti e familiari
«Il paziente e la sua compagna si trovano spesso soli a gestire questi aspetti – conclude Paolo Gritti, presidente della Società Italiana di Psico-Oncologia (SIPO) -. Il cancro alla prostata avanzato è una malattia di tutta la famiglia, in particolare della coppia. La fase successiva all’intervento impatta molto sui malati a livello emotivo, per questo le loro compagne svolgono un ruolo fondamentale nel sostenerli, trovando anche nuovi modi per vivere l’intimità e stare insieme. Un approccio multidisciplinare nel sostegno al gruppo familiare si rivela essenziale anche da questo punto di vista. Inoltre molte caregivers hanno vissuto precedenti esperienze di tumore al seno o all’utero, quindi rivivono indirettamente il manifestarsi della malattia e delle terapie, con inevitabili conseguenze a livello psicologico».