19 aprile 2024
Aggiornato 04:00
Viver bene

Intolleranze alimentari: esistono davvero?

La maggior parte dei test sono privi di fondamento scientifico e la risoluzione dei sintomi spesso è associata all’effetto nocebo. Pochissimi i casi reali.

Esistono davvero le intolleranze alimentari?
Esistono davvero le intolleranze alimentari? Foto: Shutterstock

Sono comparse come un fulmine a ciel sereno e sembrano riguardare una fetta della popolazione sempre più estesa. Ma le intolleranze alimentari esistono davvero? La scienza si divide in due: in chi non ci crede affatto e in chi, invece, ne seleziona pochissime considerandole reazioni non immuno-mediate. Ma cosa sono le intolleranze alimentari? E quanto fondamento scientifico esiste al riguardo?

Cos’è un’intolleranza alimentare
L’intolleranza alimentare è una reazione dell’organismo a determinati cibi, non immuno-mediata. Ovvero il sistema immunitario non provoca alcuna risposta in seguito all’assunzione. Per tale motivo è pressoché impossibile rilevarla con metodi scientifici. Unica eccezione è l’intolleranza al lattosio verificabile attraverso un deficit di enzima lattasi e un aumento dei valori di idrogeno attraverso il breath test.

Cos’è il Breath test?
Si tratta di un esame molto semplice e non invasivo che si esegue dopo aver assunto del lattosio. Essendo uno zucchero, viene fermentato dalla flora batterica intestinale che, in tutta risposta, produrrà idrogeno e metano – in piccole quantità in condizioni normali. Di norma, tali componenti si sviluppano in maggior quantità a livello del colon, che dovrebbe per lo più assimilare il lattosio. Se ciò non avviene e lo sviluppo di idrogeno è molto elevato verrà eliminato in gran quantità attraverso i polmoni ed espirato – visibile attraverso il test del respiro. Il test ci informa, quindi, di un’eccessiva fermentazione a livello intestinale, spesso causata da una disbiosi o malassorbimento di zuccheri.

  • Lo sapevi?
    Le prove del breath test si basano sul fatto che non c’è alcuna fonte di gas idrogeno nell’uomo che non provenga dal metabolismo batterico dei carboidrati.

Come funziona la digestione degli zuccheri nel corpo umano
«Quasi tutti i carboidrati provenienti dalla dieta sono polisaccaridi o disaccaridi. Al fine di essere adeguatamente assorbiti dall’intestino e trasportati nel sangue, i poli- e disaccaridi devono essere digeriti per diventare monosaccaridi assorbibili (glucosio, galattosio e fruttosio). Per far questo, sono necessari diversi enzimi, quali amilasi pancreatica ed enzimi epiteliali intestinali (cioè lattasi, saccarasi, maltasi ecc.). L’assorbimento è principalmente un trasporto attivo, con selettività per monosaccaridi specifici e la concorrenza tra diversi zuccheri. Pertanto, la composizione della dieta influenza l’efficienza di assorbimento dei carboidrati e la quantità di carboidrati che raggiunge la non assorbito colon», si legge su un articolo pubblicato su Gut.

Cosa c’entra la fermentazione intestinale?
Se i carboidrati – come nel caso del lattosio – non possono essere assorbiti a causa di un deficit enzimatico o una disbiosi intestinale, i batteri fermentano gli zuccheri ed ecco verificarsi gonfiore, distensione addominale o diarrea.

Intolleranza alimentare o proliferazione batterica?
Negli ultimi anni la scienza ha riconosciuto una condizione abbastanza comune denominata SIBO (Small Intestinal Bacterial Overgrowth ), ovvero una crescita eccessiva dei batteri dell’Intestino Tenue. Tra i sintomi più comuni ci sono diarrea, distensione addominale, anemia e malassorbimento. La patologia è stata associata ai pazienti celiaci, alla pancreatite cronica, all’ipotiroidismo, al morbo di Parkinson e alla fibromialgia. In molti casi la condizione è stata evidenziata attraverso il test del respiro, «tuttavia, l’uso del breath test e l’interpretazione del risultato richiede conoscenza di questi test. In alcuni studi si aperta una discussione in merito alle possibili fonti di errore che si possono avere dai risultati».

Buttati fior di quattrini in diagnosi di intolleranze alimentari inesistenti
Come abbiamo visto, è possibile verificare un’abnorme crescita di batteri intestinali o un deficit enzimatico nel caso del lattosio. Ma il problema è che ci sono persone che spendono fior di quattrini per diagnosticare intolleranze alimentari che non esistono affatto. Secondo recenti stime gli italiani hanno buttato al vento ben 300 milioni di euro ogni anno. La ricerca ritiene che si tratti di persone facilmente suggestionabili convinte che un cibo possa far loro male e sentendosi subito molto meglio una volta eliminato dalla dieta. Quest’effetto – definito nocebo dalla scienza – sembra funzionare alla stregua del placebo.

Basta poco per crederci
«Rossori cutanei e disturbi intestinali sono spesso segni di allergie alimentari, spiega Walter Canonica, presidente della Siaaic (Società italiana allergie asma e immunologia clinica) in un articolo de il Giorno – ma basta una stanchezza inspiegabile, qualche crampo addominale o un vago mal di testa per spaventare una persona, al punto che questa pensa subito di aver mangiato qualcosa di sbagliato. Il fatto è che poi vanno a spendere dai 90 ai 500 euro, a seconda dei casi, per accertamenti improvvisati, o privi di validazione scientifica, con il rischio di sottovalutare i segni della vera allergia o della celiachia». Diffidare dunque dei negozi (farmacie, erboristerie eccetera) che espongono cartelli del tipo ‘Test delle intolleranze alimentari’.

Serve eliminare alimenti?
Va da sé che se davvero non digeriamo bene alcuni alimenti ci sarebbe da chiedersi il perché. Se si tratta di disbiosi intestinale, di malassorbimento, di carenze di enzimi… togliere l’alimento non serve a niente e se lo si fa, bisogna che sia per un periodo molto limitato di tempo. «Eliminarli per un limitato periodo di tempo – spiega Elide Pastorello al Corriere della Sera – può servire per convincere una persona del problema. Poi, però, vanno introdotti, anche a costo di qualche sintomo che una persona dovrà imparare a tollerare. Una dieta equilibrata non può prescindere da questi alimenti».

I test sotto accusa
La maggior parte dei test che diagnosticano intolleranze alimentari – per lo più completamente privi di fondamento – sono il Vega test, il test della forza, il test del capello e la biorisonanza. Tutti esami diffusi, ma non ripetibili in alcun modo come la scienza vuole. «Le metodiche diagnostiche attuali sono molto raffinate e ci consentono, nel caso delle allergie alimentari, di individuare con precisione a quale porzione, proteina, dell’alimento si è realmente ipersensibili – fa notare Mario Di Gioacchino, vicepresidente Siaaic – Questi strumenti sono essenziali, perché permettono di dare indicazioni ai pazienti più accurate rispetto al passato, migliorando nettamente la loro qualità di vita: in alcuni casi per esempio è possibile consumare un frutto a cui si è allergici togliendone la buccia, oppure un alimento si può mangiare una volta cotto. Dipende dalle proteine specifiche che sono coinvolte nell’allergia, conoscerle oggi è possibile e significa anche sapere se il paziente è a maggiore o minor rischio di reazioni severe fino allo shock anafilattico». Prima di farsi diagnosticare intolleranze campate in aria, quindi, il consiglio è di rivolgersi a un allergologo che saprà indicare la via più giusta da seguire.

Cosa fare dunque?
Per prima cosa rivolgersi a uno specialista – quindi un medico e nessun altro tipo di figura alternativa – e, nel caso eseguire dei test validi che escludano il rischio di allergie. Dopo di che si può pensare a eventuali terapie che ripristino la flora batterica intestinali – negli ultimi anni la scienza sta riscoprendo il valore degli alimenti fermentati. Una recente ricerca pubblicata su Journal of the American Dietetic Association ha infatti dimostrato che le integrazioni quotidiane di kefir possono migliorare l’intolleranza al lattosio. Questo accade principalmente per un motivo: il kefir di latte contiene gli enzimi (lattasi) necessari alla digestione dell’alimento stesso. Consideriamo, infatti, che non digeriamo il latte anche perché lo beviamo sempre pastorizzato o bollito: a tali temperature gli enzimi naturalmente presenti nell’alimento vengono completamente distrutti. Perciò, prima di eliminare drasticamente un cibo è meglio provare a risolvere il problema e stare davvero bene.

[1] Gut. 2006 Mar; 55(3): 297–303. doi: 10.1136/gut.2005.075127 PMCID: PMC1856094 Use and abuse of hydrogen breath tests M Simrén and P‐O Stotzer

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