Per caso la corruzione è diventata legale e noi non lo sapevamo?
I casi giudiziari di questi ultimi giorni dimostrerebbero come, ad oggi, la corruzione non esista più, assorbita da pratiche non impugnabili. Davanti alle quali il «no» alle Olimpiadi è l'unica scelta possibile.
ROMA - Pochi giorni fa, Ercole Incalza è stato assolto per la sedicesima volta. Super-dirigente del ministero delle Infrastrutture, un tempo ministero per i Lavori Pubblici, Incalza ha progettato e realizzato la trasformazione infrastrutturale del Paese. La sua assoluzione, la sedicesima, è la doverosa lente con cui leggere la vicende giudiziarie che si sono aperte come voragini nei giorni scorsi. Perché lo schema che coinvolge Incalza, e con lui altre decine di personaggi che nel tempo salgono al disonore della cronaca passando da colpevoli mediatici a innocenti giudiziari, è ormai solido.
Il caso Incalza
Pochi giorni fa, il gip di Firenze Angelo Pezzuti ha archiviato le gravi accuse che pendevano su Incalza – corruzione, turbativa, frode in pubbliche forniture –, dato che non vi erano prove. E’ stata la Procura a richiedere l’archiviazione, la stessa che aveva avanzato le ipotesi di reato e comminato restrizioni, gravi, alla libertà personale dei sospettati. L’impalcatura della Procura originaria era classica: intercettazioni, frasi compromettenti, scambi di favori, mazzette. Tutto questo, nel caso che ha coinvolto Ettore Incalza – il sottoattraversamento fiorentino del Tav – è crollato. Archiviate le posizioni di altri undici co-imputati. Incalza continua ad essere un uomo dalla specchiata moralità.
Perché accade questo schema?
Vi è una percezione errata del fenomeno corruttivo in Italia. La mitologia di Mani Pulite ha creato un immaginario distorto dove la figura principale è il politico corrotto che riceve buste di denaro o altri benefici. Mario Chiesa diede il via alla fine della Prima Repubblica buttando nel water una busta contenente poche lire. Da quella busta partì un percorso che giunse, inchiesta dopo inchiesta, ad altre maxi tangenti, che avevano, effettivamente, una connotazione estetica siffatta. Ma i tempi sono molto cambiati e il fenomeno corruttivo ha preso nuove forme. Oppure, semplicemente, la corruzione non esiste più, assorbita da pratiche legali e non impugnabili.
La corruzione è legale?
Se il meccanismo estrattivo è centrato sul gioco del massimo ribasso e della successivo variazione del prezzo in corso d’opera, è possibile fermarlo? Se il subappalto è lo strumento con cui assegnare lavori a ditte, o cooperative, vicine alla criminalità organizzata, si può fermare? Nell’inchiesta di questi giorni appare evidente che la ‘ndrangheta stia lavorando nei cantieri di tutta Italia. Ma non è una presenza criminale: la presenza di personaggi oscuri, «vicini» ai clan, può essere in sé moralmente eccepibile: ma i tribunali non sono chiamati a giudicare la condotta morale delle persone. Dalla recente inchiesta che ha portato all’ennesima assoluzione per Ercole Incalza, e altri undici co-imputati, emerge nettamente che la magistratura non è in grado di cogliere il confine tra legale e illegale. Stipendi, consulenze, incarichi paralleli sono un territorio che si piega sull’interpretazione arbitraria. Una consulenza strapagata è una forma di corruzione? Assumere nella ditta che ha lavori pubblici parenti o amici, in un Paese dove il conflitto di interessi è la norma, è corruzione? Le ditte che eseguono i lavori sospettate di essere vicine alla criminalità organizzata raramente manifestano affinità parentali con capobastone o delinquenti conclamati. Bastano dei prestanome, oppure delle scatole cinesi la cui proprietà non è chiara.
Incidenza criminale non dimostrabile
Scrivono i Pm fiorentini che hanno chiesto l’archiviazione per Incalza e gli altri: «Non è possibile accertare se le carenze della direzione lavori siano determinate da condotte illecite o siano anche solo in parte conseguenza di accadimenti non attribuibili alla stessa Dilan.Fi». Tradotto: non riusciamo a provare l’incidenza criminale di quanto avvenuto. Perché non è possibile farlo, almeno con le attuali norme. Può dispiacere, ma questa è la realtà: e l’incidenza statistica delle assoluzioni e archiviazioni, per non parlare delle prescrizioni, corrobora la tesi secondo cui il terreno tra il lecito e l’illecito non ha più un confine segnato.
«A parità di condizioni»
Nel 2014 il presidente del Consiglio annunciava: «L'Italia si candida alle Olimpiadi del 2024, con Roma al centro del progetto, e non lo faremo con lo spirito di De Coubertin, per partecipare: lo faremo per vincere. Abbiamo tutte le condizioni per ambire all'oro. Saremo all'avanguardia nel controllo della spesa». «A parità di condizioni» è la formula magica che apre qualsiasi porta. E’ scritta in tutti gli appalti e significa una cosa sola: «qualsiasi preventivo è nullo, fantasia, numeri a caso». Questo perché la «parità di condizioni» è in natura semplicemente impossibile.
Il caso Roma 2024
I costi preventivati per un grande evento come le Olimpiadi di Roma sono quindi numeri a caso. Come sono fantasiosi i numeri in cui si «certificano» ricadute sul territorio più o meno positive. I costi previsti per l’evento furono 9,7 miliardi, 5,58 miliardi di euro previsti per l’investimento e la spesa programmata per la parte delle stesse infrastrutture già incluse nei programmi pubblici per gli stessi anni (2017-2023) per Roma e il Lazio, il che ridurrebbe l'esborso specifico per le Olimpiadi a 4,2 miliardi di euro. Ma il giornalista di Libero Franco Bechis, dopo una serie di calcoli ed estrapolazioni, contestò tale preventivo e scrisse: «Il vero conto di questa tabella sarebbe questo: costi per lo Stato 11 miliardi e 487 milioni di euro, rientri netti per lo Stato di 3 miliardi e 405 milioni. Risultato finale: una perdita per le casse pubbliche di 8 miliardi e 82 milioni di euro».
L'aleatorietà dei costi di preventivo
Da questa tabella è semplice capire l’aleatorietà dei costi di preventivo. In un articolo di Luglio il Financial Times affrontava il tema dei grandi eventi e portava diversi spunti interessanti. Uno tra tutti: secondo il loro articolista Tim Hartford oggi è non possibile ipotizzare un costo inferiore ai 10 miliardi di dollari per le Olimpiadi. Il massimo incasso possibile immaginabile è, sempre secondo lo studio del Financial Times, pari a 4 miliardi di euro. Fate voi la differenza. A tutto questo si devono aggiungere due tipicità italiane. La prima: ogni opera pubblica ha un aumento dei costi, statisticamente provato, pari al 40%. La seconda: le opere pubbliche inerenti gli impianti sportivi, in Italia, hanno la malaugurata propensione all’abbandono. Come dimostrano la pista da bob e il trampolino di Torino 2006. Il duo Montezemolo-Malagò presentò poi un progetto low cost che, però, non si discostava molto dall’originario.
M5s e moratoria sulle grandi opere?
Unendo i due principi è chiaro il modello che ha saccheggiato il Paese. A questo punto la decisione romana di non ospitare i Giochi olimpici appare come la più brutale, e per molti versi triste, ma efficace. Non è infatti un’ipotesi peregrina immaginare inchieste su inchieste della Magistratura, prima e dopo i Giochi, che non avrebbero condotto da nessuna parte. Titoli di giornali sicuramente, e sicuramente nessuna sentenza di colpevolezza. Dove questa moratoria, riconducibile esclusivamente al M5s, possa condurre non è immaginabile. Bloccare le opere pubbliche, e demandarle al salvifico intervento del privato, non è possibile. Sarebbe opportuno un cambio di paradigma: dal grande al piccolo. Perché più controllabile, meno soggetto alla locuzione «a parità di condizioni». Sarebbe opportuna una legge sul conflitto di interessi. Sarebbe opportuno vietare il massimo ribasso. Sarebbe opportuno finanziare adeguatamente le istituzioni preposte alla realizzazione delle opere. Scelte che non partono mai, senza un perché.