Il flop dei padri della patria
Nonostante Fiorello pochi ascolti per la trasmissione che deve “eleggere” l’italiano più grande di sempre
I puristi si fregheranno le mani. La trasmissione «blasfema» che dovrebbe decretare il più grande italiano di tutti i tempi ha fatto flop.
Nonostante la conduzione di Francesco Facchinetti, un emergente di successo che piace ai giovani, e dell’attrice Martina Stella, la stella dell’Ultimo bacio», la prima delle quattro puntate dello show «Il più grande» non ha nemmeno raggiunto i due milioni di spettatori.
Numeri da televisione locale. Un insuccesso sul quale non è riuscito a mettere una toppa nemmeno un vincente come Fiorello, ospite d’onore della serata.
L’idea dello show, vale la pena di ricordarlo, è quella di mettere a confronto, in un Olimpo di 50 nomi, i grandi italiani del presente e del passato.
Poiché mischia grandi come Galileo o Padre Pio, a «grandi» come Fiorello o Laura Pausini, la trasmissione, anche prima dell’esordio, aveva suscitato molte polemiche fra chi ritiene che si può scherzare con i fanti, ma bisogna lasciar stare i santi.
Aveva già fatto scalpore che alla prima tornata eliminatoria, sullo stile del grande Fratello o dell’ Isola dei Famosi, Giuseppe Mazzini avesse raccolto solo l’uno per cento dei consensi, espressi con il televoto, contro il 30 per cento della Pausini.
A nostro avviso se c’era da meravigliarsi per qualcosa sarebbe stato più giusto stupirsi, non per l’esito del televoto, ma per il fatto stesso che il nome di Giuseppe Mazzini fosse echeggiato su uno schermo televisivo.
Andiamo a memoria, ma credo che non accadesse dai tempi della trasmissione «Non è mai troppo tardi».
La verità è gli italiani, anche quelli che si sentono ancora tali, non si sono mai scaldati troppo per i padri della patria. Tutt’al più li hanno subiti a scuola, dove forse qualche simpatia in più è sempre andata al burbero Garibaldi, apprezzato anche per aver pronunciato parecchi «no».
Mentre l’enigmatico Mazzini è sempre stato guardato con sospetto.
Quindi di quell’uno per cento di voti a suo favore, il fondatore della «Giovane Italia» deve anzi dire grazie agli autori della trasmissione «Il più grande», se non altro per averlo inserito in un parterre de roi e, per qualche secondo, averlo riproposto alla memoria dei telespettatori.
E’ andata molto peggio al conte Camillo Benso di Cavour. Il grande architetto dell’Italia unita, ad un anno dall’anniversario dalla fatidica data, non è stato nemmeno inserito fra i 50 migliori italiani di tutti i tempi.
Ma al di là dei risvolti faceti, il flop di una trasmissione sui padri della patria, che era stata curata in ogni particolare e per di più era stata preceduta da una sperimentazione di successo già verificata in molti altri paesi, merita una riflessione.
Conferma ancora una volta che oggi gli italiani non hanno voglia di guardarsi dentro. Che guardano alla loro storia con insofferenza e, se possono, preferiscono voltare il viso da un’altra parte. Meglio se è consentito farlo senza alcuna fatica grazie al telecomando.
L’unica forma di memoria collettiva che gli italiani sembrano al momento sopportare, e qualche volta apprezzare, è nella forma di fiction.
Dove cioè i contorni assumono toni sfumati. Nella riproposizione gli avvenimenti possono perdere l’adesione cruda con la realtà. Dove il cuore di brigatisti rossi o del bandito Vallanzasca può comunque battere in un petto di giovane vigoroso. I protagonisti autentici delle storie raccontate essere rappresentati da volti familiari. Le cose dette essere partorite da sceneggiature servite in carta patinata.
La verità vera non la vuole sentire più nessuno. Né quella recente, né quella passata. Nessuno vuole più soffermarsi a riflettere sulle diversità, incoerenze, contraddizioni che stanno alle nostre spalle.
Forse è l’effetto provocato dalla sbronza retorica che ci ha accompagnato per decenni dopo la fine dell’ultima guerra. Quando il bene e il male ci son stati rappresentati come rette incontaminabili che non si incontrano mai.
Forse il rifiuto deriva dalla grande abbuffata di resistenza che ci è stata ammannita negli anni passati.
Se fosse così saremmo nell’ambito del fisiologico.
C’è invece il rischio che noi italiani abbiamo perduto la voglia di meditare su noi stessi perché diversità, incoerenze e contraddizioni fanno più che mai parte del nostro presente.
Con in più la delusione per avere sprecato una grande occasione e ben poche speranze che l’Italia che avevamo sognato sia quella con la quale dovremo confrontarci nell’avvenire.