18 aprile 2024
Aggiornato 11:30
Intervista di Aldo Cazzullo - Il Corriere della Sera

Bassanini: «Dialogo sulle riforme»

«Il Pd non dia alibi al governo»

Professor Franco Bassanini, lei, uomo di sinistra, è stato nominato dal governo di destra presidente della Cassa depositi e prestiti. Questo significa che la collaborazione tra i due schieramenti, o almeno tra alcuni loro esponenti, è possibile?
«In Francia è accaduto. E non solo perché Kouchner fa il ministro degli Esteri, Strauss-Kahn è andato a dirigere il Fondo monetario e Attali la commissione per le riforme di cui faccio parte. Nel governo c'è l'ex braccio destro di Jospin, Jouyet. Besson, sottosegretario alla presidenza, è un socialista. E Sarkozy non lo fa per togliere spazi all'opposizione; lo fa perché senza il concorso di almeno una parte delle opposizioni le grandi riforme sarebbero impossibili. Non a caso la riforma costituzionale, che recepiva molte richieste dei socialisti, è passata con il voto decisivo di Jack Lang».

In Italia l'«ouverture» sembra più complicata.
«La collaborazione tra i due schieramenti può assumere varie forme. Il modello Merkel, cioè la grande coalizione; che però nasce dal pareggio elettorale. Noi avevamo questa chance nel 2006, e Prodi commise un grave errore a rifiutare l'offerta. Ma anche adesso ci sono due terreni su cui il confronto è indispensabile. Le riforme istituzionali, compresa la legge elettorale e la riforma della pubblica amministrazione: delle cinque leggi Bassanini, tre furono votate anche dalla destra, e le altre due vennero concordate parola per parola con il mio omologo di allora, Frattini. Per fortuna nel Pd, dopo uno scontro interno, è prevalsa la linea di appoggiare le norme portate da Brunetta al Senato, che puntano a rendere effettivi i criteri meritocratici».

Qual è l'altro terreno di confronto?
«Le grandi riforme di struttura. Che si fanno solo costruendo un consenso tanto ampio da resistere alle pressioni corporative e localiste. Purtroppo la breve stagione in cui il dialogo pareva vicino è alle nostre spalle, e oggi Berlusconi ripete che può fare da solo. Vedo però che Calderoli, un uomo migliore di come è stato dipinto, e lo stesso Bossi mantengono un atteggiamento di apertura. Hanno capito che senza il consenso dell'opposizione qualsiasi riforma può essere cancellata dai referendum. Sarebbe sbagliato non cogliere questa disponibilità. Quando si rompe, in politica, è come nei divorzi: la colpa non è mai da un parte sola».

Colpa anche di Veltroni?
«Se l'opposizione rifiuta il dialogo dà alla maggioranza l'alibi per fare da sé. Certo, così si lucra nel breve periodo il vantaggio di cavalcare tutte le resistenze, tutti gli interessi colpiti dalle riforme; ma si rinuncia a quella credibilità che viene dal concorrere a decisioni utili al Paese. Bisogna distinguere tra le «policies», le questioni su cui è legittimo scontrarsi in modo anche duro, e le grandi decisioni cui la sinistra può contribuire con le sue idee, le sue culture, i suoi riferimenti sociali «buoni», non corporativi né microegoisti. Quindi discutiamo pure su grembiule, voto di condotta e maestro unico; denunciamo l'errore di tagliare anziché investire nella scuola; ma, come ha notato Luigi Berlinguer, è sbagliato bocciare in toto il decreto Gelmini, anche nelle parti come l'aggregazione delle scuole dei piccoli centri che vanno nella direzione indicata dal centrosinistra».

Quando però Amato accettò di guidare la commissione per Roma, molti esponenti del Pd, tra cui sua moglie Linda Lanzillotta, lo invitarono a dimettersi.
«E' diverso. Il sindaco di Roma non fa le grandi riforme. Io in quella commissione non entrai anche perché ero già nel comitato, presieduto proprio da Giuliano, per scrivere le regole su Roma capitale. Che piacciono ai presidenti di Provincia e Regione, e spiacciono proprio ad Alemanno ».

Come nasce il suo rapporto con Sarkozy?
«Era il 2002 quando la mia segretaria ricevette una telefonata da Parigi: » Mon nom est Nicolas Sarkozy, forse in Italia non sapete che da quindici giorni faccio il ministro dell'Interno». Mi invitava a una riunione dei prefetti e viceprefetti francesi, per spiegare la riforma della pubblica amministrazione italiana».

Come sta andando il presidente francese?
«E' come Brunetta: troppo precipitoso. E poi l'elettorato più conservatore non ha apprezzato il fidanzamento con Carla svelato a Disneyland. Ma è in ripresa. L'estate da leader europeo sulla Georgia e sulla crisi l'ha rilanciato».

Esistono i fannulloni nella pubblica amministrazione?
«Non solo esistono, ma sono stato io a coniare l'espressione. Ci sono i titoli d'agenzia, del gennaio 1997. «Il ministro Bassanini: cacceremo tutti i fannulloni e gli incapaci».

Però non l'avete fatto. Come giudica Brunetta?
«Intanto già dal '98 licenziare è possibile, ed è anche accaduto, sia pure in rari casi. Brunetta era partito bene. Poi, preso dalla frenesia, ha annunciato risparmi per il 30% sui costi della pubblica amministrazione. Ma la priorità non è tagliare, è migliorare i servizi. La prima pagina del rapporto Attali è dedicata agli asili nido. In Francia ci sono 28 posti ogni 100 bambini, e li si vuole portare sopra i 50, come nei Paesi scandinavi. In Italia i posti sono 9 su 100».

Quale ruolo può avere la Cassa da lei presieduta in tempo di crisi?
«Morto il pensiero unico ultraliberista, mi preoccupa il rischio di passare all'estremo opposto del pendolo: l'ultrastatalismo, l'eccesso di regolamentazione. Per fortuna vedo che Tremonti, uno che aveva dato l'allarme per tempo, ora non parla più di protezionismo ma di «fair trade», non di dazi ma di regole. Questo è il ruolo dello Stato: fare le regole che consentano al sistema di funzionare. Su questo si può trovare un'intesa tra un centrodestra riformatore e un centrosinistra riformista, che non commetta più l'errore dell'estate dei furbetti, quando un pezzo dei Ds si schierò dalla parte della speculazione finanziaria».

Quindi lei non crede allo Stato azionista, ad esempio delle banche?
«Assolutamente no. Credo invece al ruolo delle fondazioni, interpretate come nella sentenza Zagrebelsky: forme di organizzazione delle libertà sociali, espressioni di pezzi della società civile antiche di secoli, come la fondazione Montepaschi. Il compito della Cassa è mettere l'economia privata in condizione di reggere la concorrenza internazionale. Ci sono infrastrutture in grado di autofinanziarsi, come la Brebemi, l'autostrada Brescia-Bergamo-Milano: quella possono farla i privati. Ma per il Ponte di Messina servono capitali pubblici. Come per la trasformazione in fibra ottica dell'ultimo miglio, la «larghissima banda», che Telecom non è in grado di fare da sola. Se poi a suo tempo si fossero privatizzate Stet e Sip, mantenendo pubblica la rete locale, forse sarebbe stato meglio».

Ma questo è il famigerato piano Rovati.
«Un mese prima che uscisse quel piano, i Rovati, con i Prodi, erano a cena con Linda Lanzillotta e con me a casa di Stefano Passigli, e ascoltarono le mie riflessioni sul tema: che poi sono in linea con quanto è accaduto in Corea e Giappone e sta accadendo in Cina, dove la rete la paga lo Stato. Certo, può essere che Rovati fosse già dello stesso avviso».

Due ultime domande personali. E' vero, come ha scritto un quotidiano, che lei fece togliere a Cossiga la cattedra all'università di Sassari?
«No. E' vero che, quando alla fine degli Anni Sessanta insegnavo a Sassari diritto costituzionale, quasi ogni lunedì mattina Cossiga che allora era sottosegretario alla Difesa mi telefonava per chiedermi se potevo fare pure le sue lezioni di diritto regionale».

Lei ruppe con Craxi negli «anni del consenso», più precisamente nell'81. Ora però è spuntata una sua lettera dell' 89 in cui si dichiara «a disposizione».
«Lettera apocrifa. Quando ho chiesto una perizia calligrafica, mi hanno risposto che la lettera è scritta a macchina. Ma io non scrivo a macchina dall'85! La rottura con Craxi avvenne sulla commistione tra politica ed economia. Più tardi, nel '90, fui capolista come indipendente di sinistra al Comune per il Pci, allora in giunta con il Psi di Pillitteri. Proposi di azzerare tutte le nomine, dall'Aem al Trivulzio. Fui rinnegato dal mio stesso partito, mi dissero che non mi avrebbero mai più ricandidato. Poi, il giorno in cui arrestarono Mario Chiesa, mi chiamò Veltroni, allora direttore dell'Unità, per chiedermi l'editoriale. Di non ricandidarmi non si parlò più».

Fonte Intervista di Aldo Cazzullo - Il Corriere della Sera