«I contenuti al centro delle proposte del PD»
La lettera di Beatrice Magnolfi
Nel grande dibattito che si è (finalmente!) aperto sulla scuola, purtroppo si parla di tutto tranne che di contenuti e metodi di apprendimento.
L'unico indirizzo «culturale» del governo è quello dei tagli e del ritorno al passato in materia di disciplina e di controlli: il rimpianto di una scuola più severa si può anche condividere, alla luce delle recenti degenerazioni, ma le riforme necessarie sono ben più profonde.
La scuola italiana va cambiata in modo radicale e il PD, con le proprie proposte, dovrà partire dai contenuti e dalla struttura stessa del sistema formativo.
L'impresa è difficilissima, l'ultimo che ci ha provato seriamente, Luigi Berlinguer, ha pagato personalmente la propria utopia, ma senza quella utopia si fanno solo ritocchi cosmetici, che non intaccano i problemi di fondo.
Uno di questi problemi, secondo me, è che i ragazzi, soprattutto quelli delle medie e delle superiori, a scuola si annoiano profondamente. E, se si annoiano, ovviamente non imparano.
I più svegli, o i più sgobboni, o quelli che vivono in un ambiente familiare più stimolante, se la cavano lo stesso. Gli altri vanno ad abbassare le percentuali dei test OCSE e PISA, che registrano un drammatico arretramento della scuola italiana, soprattutto in certe aree.
Ciò che va messa in discussione non è tanto la preparazione degli insegnanti -che tuttavia va sottomessa a valutazioni serie e ricorrenti- e tanto meno la regione da cui provengono. Su questo si sono sentite madornali sciocchezze.
E' l'intera offerta formativa della scuola italiana che va ripensata, perché è stata concepita in un contesto culturale che non ha nulla a che vedere con quello attuale. E' stata progettata per bambini e giovani che oggi non ci sono più.
Oggi i bimbi cominciano il percorso scolastico tre anni prima, grazie alla scuola materna, che in genere ha un livello eccellente. Non solo, ma sono bombardati da una mole enorme di stimoli e di informazioni; viaggiano di più con i genitori e, da veri «internet natives», cominciano a smanettare sul computer fin da piccoli; crescono fra le suonerie dei cellulari e le immagini della playstation, per non parlare dell'enorme influenza della televisione, che certo - forse purtroppo- non è la stessa di Carosello e di Topo Gigio.
Questo è uno dei motivi per cui la riforma dei moduli alle elementari ha funzionato, qualunque sia la motivazione per cui è stata pensata: con quella riforma, che la Gelmini ha cancellato, non solo si garantiva a tutti il tempo pieno, che è un grande fattore di equità e di mobilità sociale, ma si spostava in avanti il primo ciclo - grazie alla presenza di più insegnanti e più specializzati-, avvicinandolo alla scuola media e in questo modo evitando tanti insuccessi dovuti al passaggio traumatico fra il primo e il secondo ciclo.
Bisognerebbe fare il contrario di ciò che ha fatto il governo, ovvero chiedersi se abbia ancora senso la separazione fra i due cicli di base, spesso già fisicamente uniti negli Istituti comprensivi. E anche se non sia anacronistico che i ragazzi di oggi, pur crescendo e imparando prima, per arrivare al diploma debbano andare a scuola fino a 19 anni, come facevano i genitori e i nonni, con la conseguenza che i coetanei europei arrivano tutti al traguardo prima di loro.
Ma poi: cosa si impara a scuola? E come?
Di certo non si impara l'amore per la scienza, neppure nel liceo scientifico.
Ci sono pochissime ore di studio, e pochissimi laboratori. Nella patria di Galileo, l'esperienza scientifica è in gran parte ancora preclusa agli studenti delle medie e delle superiori.
Eppure non manca l'interesse e neppure il talento: basti vedere il successo presso i giovani delle iniziative di divulgazione scientifica.
Per contro, nella scuola italiana non si impara neppure l'arte, anzi va detto che, a parte la scuola elementare, ogni tipo di creatività è fortemente scoraggiato o relegato nelle attività extracurricolari. Basta fare un giro negli altri paesi europei per vedere quale importanza abbia l'espressione artistica nei curricoli e nella formazione dei giovani: dalla scrittura creativa all'educazione all'immagine, dal disegno ai laboratori teatrali.
Quanto alla musica, a meno che i ragazzi non frequentino il conservatorio, sono rarissime le occasioni offerte dalla scuola e questo la dice lunga sulla drammatica distanza con il mondo giovanile.
I Comuni più avanzati in Italia hanno finora supplito a questo vuoto grazie alle scuole di musica comunali, soprattutto attive nel centro-nord, ma lo stato della finanza locale non consente più queste iniziative.
Insomma, la discussione sui contenuti dovrebbe spaziare molto al di là della stucchevole querelle sull'insegnamento del latino, spesso ideologica e non fondata su considerazioni scientifico-pedagogiche.
E dovrebbe investire soprattutto il metodo.
La scuola italiana, con i suoi paradigmi di insegnamento prevalentemente teorico e somministrato dall'alto, è figlia di un modello cognitivo che è stato definitivamente superato dall'avvento della società digitale, continuamente interconnessa, veloce, interattiva. Una società che sta cambiando tutti i linguaggi, le relazioni fra le persone, il modo di lavorare e perfino di pensare. Cambia la durata dell'attenzione e il meccanismo della concentrazione, la memoria, la fruizione culturale. La compartimentazione del sapere viene spazzata via, c'è una nuova domanda di contaminazione e di partecipazione alla produzione dei contenuti che rende antidiluviana l'organizzazione stessa della scuola.
La risposta non è l'insegnamento del computer nell'aula di informatica che, quando va bene, è in genere chiusa a chiave e accessibile un'ora la settimana. E neppure sostituire il computer al libro o al quaderno delle ricerche.
Il problema è cogliere il salto di paradigma, il bisogno di apprendere «facendo» e non solo ascoltando, la domanda inedita di protagonismo che confligge con la passività, che peraltro verrà ulteriormente incoraggiata dal 5 in condotta.
Si annoiano gli studenti, e si annoiano anche i professori, sempre meno chiamati a contribuire in maniera originale e propositiva al processo formativo e sempre più ridotti a burocrati, meri certificatori di attività obsolete.
La demotivazione degli insegnanti è la grande malattia della scuola italiana e deriva soprattutto dalle vergognose condizioni economiche in cui sono condannati a versare e dal falso egualitarismo che, giorno dopo giorno, smorza gli entusiasmi dei più bravi. Ma deriva anche dalla frustrazione e dall'impotenza nel vedere la scuola destinata a declinare di fronte allo strapotere delle altre «agenzie formative», dalla inadeguatezza dei mezzi con cui dovrebbero combattere la regressione culturale, dall'incapacità di mettere un argine alle crescenti differenze sociali, dalla solitudine in cui sono lasciati a svuotare il mare con un secchiello.
La Gelmini scopre che nella scuola ci sono gli sprechi? E' profondamente vero. Ma sono soprattutto sprechi di intelligenza, di cultura, di entusiasmo, di professionalità, di meriti individuali, di talento. Sprechi di sapere, che è la più grande ricchezza delle società moderne.
Continuando così, può esserci solo un ulteriore degrado e, per chi può, una fuga dalla scuola pubblica.
Il movimento che è sceso in piazza in questi giorni per me è come un grido contro l'indifferenza che porta al degrado, è un messaggio di energia e di vitalità, dimostra che la rassegnazione non ha ancora preso il sopravvento e che un'altra scuola è possibile.
E' un movimento che tutto vuole tranne una scuola più facile. Al contrario, mi sembra di cogliere una forte opposizione alla «cultura della scorciatoia» e alla furbocrazia che è diventata egemone nel nostro paese. Tocca a noi raccogliere questo messaggio positivo, in maniera non strumentale, e sapendo che il cambiamento necessario non sarà indolore. Ma, come direbbe Veltroni, il riformismo non è «anche» radicalità?
Beatrice Magnolfi
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