E non c’è niente da capire. Francesco De Gregori e la sua quieta rassegnazione all’assurdo
Il cantautore e il suo rapporto con il dolore, il disorientamento, Kafka e la balena bianca: «Il successo mi ha travolto negli anni universitari, così l’ho seguito invece di finire la tesi. Una tesi sulle biblioteche popolari scolastiche durante il fascismo, perché mio padre era bibliotecario».
PORDENONE – Siamo abituati a sentirlo cantare, abbiamo tutti in mente una voce nasale, con le vocali aperte, una voce senza tempo che ricorda vinili e musicassette. Ma quando parla, Francesco De Gregori ha un timbro più profondo, caldo, chiudendo gli occhi si immagina un uomo sulla trentina. Parla della sua istruzione, sempre a occhi chiusi potrebbe essere un neolaureato, appena qualche anno fuori corso. Invece, alla laurea non è mai arrivato: «Il successo mi ha travolto negli anni universitari, così l’ho seguito invece di finire la tesi. Una tesi sulle biblioteche popolari scolastiche durante il fascismo, perché mio padre era bibliotecario. La storia è sempre stata importante per me, da piccolo ritagliavo foto di guerra dalle riviste, la prima volta a cinque anni, ho ritagliato l'immagine di un carro armato a Budapest, come nella mia canzone, ‘Il ‘56’. Grazie a quella foto, per la prima volta ho sbattuto contro la storia. Il passato mi attrae così tanto che qualche anno fa ho cercato di finire la tesi, a distanza di decenni, ho ripagato tutte le tasse per farlo. E nuovamente non è successo. Però chissà, potrei ripagare tutto e provare di nuovo».
Oggi a Pordenonelegge viene presentato il suo libro, scritto in collaborazione con Antonio Gnoli: ‘Passo d’uomo’. È il titolo di una canzone tratta dall’album ‘Sulla strada’, ispirato al romanzo di Kerouac. Infatti nel libro, più che di storia, si parla di letteratura. E dalla voce, inaspettatamente giovane, di De Gregori, i libri non escono come siamo abituati a pensarli, ad esempio Kafka diventa un autore ‘rassicurante’: «All’inizio de ‘Il castello’ vediamo un’agrimensore che attraversa una distesa di neve, disorientato, che entra in una locanda e si intrattiene con dei contadini sconosciuti. Sappiamo che alla fine si perderà nel castello e la sua condanna sarà tremenda, ma nell’incipit di questa storia io trovo un senso di pace, di straniamento». Lo dice come se pace e straniamento fossero sinonimi. E l’incomprensibile, un rifugio: «Lo spiazzamento che arriva dal dolore provoca sofferenza a quasi tutti gli uomini, ma per l’artista è una forma di riscatto. Quello che Kafka ha di risolutivo è l’acuta capacità di raccontare il dolore, regalarlo o infliggerlo al lettore, e nel suo caso non è triste e angoscioso, quello che cambia è la sua quieta rassegnazione all’assurdo».
Più di Kafka lo affascina Melville, ci legge un lungo passo da Moby Dick, quello in cui Achab vorrebbe smettere di cercare la balena bianca e pensa di invertire la rotta verso una vita normale, con la sua famiglia e l’odore dell’erba. Ma il fascino di una vita stanziale si dissolve quasi subito, il capitano prosegue il suo viaggio nel mare che lo inghiottirà, insieme al suo equipaggio. «Questa, se permettete, è letteratura», sentenzia chiudendo il libro.
Ma guai a chiamarlo intellettuale anche se, a metà di una frase. dice ‘i miei libri’ al posto de ‘le mie canzoni’. Un lapsus che lo contraddice, se rende conto ridendo, poi torna serio: «Sono un cantante, ho i calli sulle mani, non mi occupo di intelletto ma di emozioni. Non mi interessa che la gente capisca le mie canzoni, voglio che si emozioni ascoltandole». Quindi, per dirla assieme a lui, ‘non c’è niente da capire’: «Il mio sogno è scrivere una canzone semplice e bella come ‘Sapore di sale’, invece nelle mie canzoni le parole si accalcano, si affollano, qualcuno dice che sono criptico».
Vorrei chiedergli che altro ci si potrebbe aspettare da qualcuno che confonde la pace con lo straniamento. E si commuove leggendo il lento suicidio di Achab, che sacrifica una vita semplice e serena per rincorrere un cetaceo negli abissi. Glielo chiederei, ma non ha fissato un appuntamento con la stampa.
Una risposta mi sembra di trovarla in ‘Passo d’uomo’, la canzone che dà il titolo al libro: «E non c'è niente da nascondere, niente da svelare, niente da tenere stretto, non c'è niente da lasciare. Povero cuore, come uno straniero giro la mia terra abbandonata, abbandonato e solo, e vado per la vita a passo d'uomo. Altra misura non conosco, altra parola non sono».
Si riconosce un capitano ferito che insegue una balena, o il protagonista di ‘Sulla strada’ che cerca il padre scomparso. Qualcuno che, da solo, corre incontro all’incomprensibile sognando la semplicità. Eppure, De Gregori non dà l’impressione di essere disorientato, sembra trovarsi esattamente dove deve essere: dove gli uomini soffrono e gli artisti si riscattano. E anche se gli anni lo hanno cambiato, la sua voce è ancora quella di un giovane uomo.