29 marzo 2024
Aggiornato 12:00
Alcuni dettagli visibili ancora oggi

Giorno della Memoria, com'era il ghetto ebraico a Torino e cosa resta

Quattro angoli racchiusi tra le vie Maria Vittoria, Bogino, Principe Amedeo e San Francesco da Paola. Dalle prime restrizioni allo Statuto Albertino fino alle leggi razziali, storia di una comunità perseguitata nei secoli

TORINO - Quattro angoli racchiusi tra le vie Maria Vittoria, Bogino, Principe Amedeo e San Francesco da Paola. Un isolato definito da due blocchi residenziali che si affacciano su un cortile interno, costellato di ballatoi che si snodano a ringhiera sui quattro lati. Era questo il ghetto ebraico di Torino. Il centro principale risale addirittura al 1679. Torino, con i suoi mille iscritti e le sue istituzioni scolastiche e culturali, oggi è la comunità ebraica più importante della Regione e la terza in Italia. E il Piemonte è tra le regioni più ricche, anche a livello europeo, di testimonianze artistico-culturali della comunità ebraica. Testimonianze che molti non conoscono.

I primi insediamenti ebraici
In pochi sanno ad esempio che i primi ebrei arrivarono in città già nel 1394, dopo l'espulsione dalla Francia, e furono ammessi a Torino ufficialmente solo nel 1424. La loro presenza divenne così forte in così poco tempo da dover essere regolamentata con gli Statuta Sabaudiae, emanati da Amedeo duca di Savoia. Le discriminazioni nei loro confronti cominciarono presto: l'editto imponeva una serie di limitazioni ai contatti tra ebrei e cristiani, ma delineava anche un quadro di sostanziale tolleranza, che tra alti e bassi si mantenne in vigore fino all'emancipazione. Nuovi gruppi di ebrei giunsero nel Cinquecento, dalla Spagna, dalla Francia e dalla Germania, attratti dalla politica liberale di Emanuele Filiberto.

L'Ospedale dei Mendicanti a San Filippo scelto per «confinare» gli ebrei
Le condizioni per la comunità ebraica cominciarono a peggiorare con la Controriforma, fino a quando fu creato il vero e proprio ghetto nel 1679, il primo di 19, nei quali furono rinchiusi i circa 5mila ebrei dei Ducato. Per «delimitare» i 763 ebrei che allora abitavano in città fu scelto il grande edificio dell'Ospedale dei Mendicanti, nella contrada San Filippo. Nel corso del '700, quando la comunità raggiunse quota 1300 persone, si ampliò, andando a formare un nuovo ghetto, di fronte a quello storico, tra le vie San Francesco da Paola, Des Ambrois e piazza Carlina. Qui si insediarono altre 300 persone. Gli edifici del ghetto si distinguevano per le loro facciate: 4 piani sovrapposti più un ammezzato. I cancelli erano in ferro battuto e chiudevano gli accessi ai cortili, con serrature apribili soltanto dall’esterno. Dentro, un mondo. Gli abitanti del ghetto erano perlopiù piccoli commercianti e artigiani, famiglie meno abbienti.

Con lo Statuto Albertino le prime libertà
Dopo la parentesi napoleonica, le discriminazioni furono sempre più dure sotto Vittorio Emanuele I, che tra le altre cose vietò la costruzione di nuove sinagoghe, proibì agli ebrei l'acquisto di case e impose restrizioni al commercio. Fu solo con lo Statuto Albertino del 1848 che le cose cambiarono: agli ebrei fu dato il diritto di allontanarsi dal ghetto, arruolarsi nell'esercito, iscriversi alle scuole pubbliche e frequentare l'università. Nel 1853 fu persino eletto il primo deputato ebreo e appena dopo Isacco Artom divenne il segretario di fiducia di Cavour, nonché primo segretario dell'ambasciata italiana a Parigi. Nel 1861 arriva anche l'idea di costruire un'enorme sinagoga monumentale, la Mole Antonelliana. Il Risorgimento italiano è anche il risorgimento della comunità ebraica.

Il cancello di via Maria Vittoria visibile ancora oggi
Il fascismo cambia di nuovo tutto. Nel momento in cui le persecuzioni razziali stanno per iniziare, le mura del vecchio ghetto diventano per gli ebrei torinesi un forte centro simbolico al quale si accede attraverso un cancello, in via Maria Vittoria, visibile ancora oggi. Nel 1938, come in parte ancora oggi, piazza Carlina è occupata dai banconi del mercato. Il luogo è considerato sicuro dalle famiglie ebree, ma smette di esserlo quando la caserma Bergia in piazza Carlina diventa il comando della Guardia Repubblicana. Dal 1938, con l’intensificarsi delle persecuzioni, la comunità si sposta in prossimità della sinagoga, nel ghetto nuovo, a San Salvario. Oggi, i cancelli di via Maria Vittoria, via Bogino e altrove pesano, metaforicamente parlando, come un macigno. E ci viene da dire per fortuna, se questo può aiutare a non dimenticare.