4 maggio 2024
Aggiornato 06:30
Editoriale

Prodi a Bersani: fai piazza pulita nel Partito Democratico

L’ex leader della sinistra per il Pd propone un comitato esecutivo composto da venti segretari regionali

Il primo a sinistra ad avere afferrato l’effetto Bossi è stato Romano Prodi.
Al «professore» si può obiettare molto sulle sue scelte operative, ma non si può non riconoscergli un formidabile fiuto nell’annusare che aria tiri.
Per Prodi dal voto regionale è uscito un verdetto che non lascia spazio ad altre interpretazioni: senza un cambio di marcia radicale la sinistra rischia di restare alla finestra per decenni, occupata unicamente a macerarsi intorno al dilemma se contro Berlusconi siano da preferire l’arma del dialogo oppure le cannonate di Di Pietro.
Bisogna dire che, anche in questo caso, l’ex premier ha dimostrato che la sua dote migliore non è quella del condottiero, ma quella dell’architetto della politica, cioè di chi è deputato a costruire sulla carta un progetto politico e a creare le condizioni affinché le ipotesi teoriche possano diventare realtà.
Non c’è dubbio infatti che le energie migliori Prodi le abbia spese nel mettere in piedi quella creatura alla quale dette poi il nome di «Unione». Mentre il peggio di se lo abbia espresso in seguito quando si trattò di gestire la macchina che con tanta abilità aveva prima costruito e poi portato alla vittoria.

Sebbene impegnato negli Stati Uniti ad impartire lezioni agli americani a Prodi non è sfuggito che l’effetto più deleterio non è stato tanto l’esito del voto regionale quanto le reazioni manifestate dalla sua classe dirigente all’ennesima sconfitta sul campo.
Anche a migliaia di chilometri di distanza all’ex leader dell’Unione è apparso chiaro che a sinistra è cominciata la caccia al segretario del Partito Democratico fatto oggetto di colpi provenienti sia dalla destra che dalla sinistra interna, delle frecciatine velenose del redivivo Veltroni, degli abbracci mortali di D’Alema, dell’appoggio della Bindi, delle picconate di Di Pietro.
Furbo com’è il «professore» si è ben guardato di partecipare a questa caccia grossa. Anzi «generosamente» ha indicato al segretario una via d’uscita: «metti alla porta tutti i leader storici che non hanno fatto che collezionare sconfitte e applica un federalismo politico guidato da un esecutivo composto da venti segretari regionali nuovi di Zecca», è stata il suggerimento di Prodi.
Sarà poi questo comitato di emergenza venuto dal basso, secondo questo nuovo assetto, a nominare un segretario nazionale.

La «generosità» di Prodi verso Bersani va messa fra virgolette per più di un motivo.
Intanto consigliare ad un uomo di mediazione come Bersani di fare la rivoluzione è come dire ad un fan del «Che» di indossare le mezze maniche da impiegato del catasto.
Bersani è troppo attaccato al modello emiliano, ai Peppone che in cuor loro ambiscono soprattutto ad andare a braccetto con i Don Camillo (convinti che basti come negli anni cinquanta far sposare il diavolo e l’acqua santa per far funzionare le cose) per imbracciare la scure del tagliatore di teste e fare piazza pulita di quella nomenclatura che comunque è la stessa che lo ha piazzato alla guida del partito proprio per le sue doti gattopardesche.
Per fare una rivoluzione ci vuole soprattutto un’idea rivoluzionaria. Il segretario del Partito Democratico per professarne una dovrebbe inoltre scegliere fra le varie anime che agitano la sinistra: il che equivarrebbe a gettare dalla torre Errani o Chiamparino, Vendola o la Puppone, Epifani o Colaninno.
Infine, qualora si azzerassero tutte le burocrazie del Pd e si desse vita ad una sorta di «comitato di salute pubblica» in salsa regionale, quante probabilità ci sarebbero che a guidare le nuove avanguardie sarebbe chiamato un esponente etichettato come di diretta espressione della vecchia guardia, come Pier Luigi Bersani? Poche o nulle.

Nessuna meraviglia quindi che l’attuale segretario del Partito Democratico, sullo stesso quotidiano, «Il Messaggero» , che aveva ospitato la proposta di Prodi abbia replicato, fra le altre, con queste parole: «Non si può prefigurare un modello istituzionale fortemente federale affidando allo stesso tempo gli elementi di garanzia unitaria alle tempeste della contesa politica. Inoltre l'equilibrio di rappresentanze e di poteri centrali e decentrati non è un gioco a somma zero: è possibile e necessario rafforzare sia gli elementi di pluralità' sia i presidi dell'unita'. Quel che vale per le prospettive istituzionali vale anche per quelle del sistema politico. Per ciò' che ci riguarda, dovremo dunque discutere dell'organizzazione del partito (molto giovane, ancora!) alla luce dello Stato che vogliamo: uno Stato che sappia interpretare modernamente la nuova unità' della nazione. Nel partito i meccanismi di rappresentanza di direzione e di selezione delle classi dirigenti dovranno determinarsi piu' nettamente a partire dal territorio. Una leadership forte nella dimensione regionale non potrà emergere davvero senza meccanismi che partano dalla dimensione locale».
Tradotto dal puro politichese di Bersani la risposta a Prodi è stata: » Caro professore, qua nessuno è fesso».
Bersani quindi rifiuta la cicuta di Prodi.
Forse preferisca il topicida che gli «amici» di partito tutti i giorni hanno cominciato a propinargli nella minestra.
E’ altrettanto velenoso, ma si può fare finta di non accorgersene.