20 aprile 2024
Aggiornato 06:30
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Tra «valore prudente» e Big Data: è qui la moneta del futuro?

Quanto possono valere i dati che ogni giorno consegnamo nelle mani dei colossi Tech? Possiamo prevedere un «basic income»?

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Big Data Foto: Shutterstock

ROMA - Alla pari delle criptomonete anche i Big Data stanno assumendo un’importanza fondamentale nel nostro quotidiano. Non tanto per i già ampiamente citati problemi di privacy, ma soprattutto per ciò che concerne il loro valore economico. Al netto delle discussioni relative al «basic income» e su un possibile stipendio che in futuro le persone potrebbero avere per la «vendita» dei propri dati, oggi, il problema è stabilire quanto davvero possano valere questi dati.

In gioco, in modo particolare, c’è il futuro del lavoro. Secondo l’ultimo studio del National Bureau of Economic Research, per ogni nuovo robot, si perderebbero dai 3 ai 6 posti lavoro e, per ogni 1000 lavoratori, i salari relativi scenderebbero tra i 0,25 e 0,5%. Sono queste le cifre che spingono sempre più a pensare, come possibile soluzione, a un salario minimo, di base, che possa garantire la sopravvivenza di chi, inevitabilmente, sarà travolto dalla rivoluzione industriale e dall’automazione. Ovviamente attraverso la compravendita dei Big Data.

Tempo fa si calcolò che ciascun utente di Facebook e Google, prendendo la capitalizzazione di borsa e dividendola per gli utenti, si raggiungevano rispettivamente i 200 e i 400 dollari pro capite. Che i Big Data comincino a essere visti come veri e propri mezzi di pagamento, si evince dalla recente apertura del The Data Dollar Store. Il negozio, che ha aperto nel cuore di Londra, è stato ideato e promosso dalla Kaspersky Lab, una società di cybersecurity, che ha voluto lanciare una provocazione: per ogni consultazione di sito web o video, gli utenti cedono i loro dati e possono quindi ‘acquistare’ dei beni. Acquistare per modo di dire, visto che non devono aprire il portafogli. Due screenshot per una maglietta, tre per una tazza e così via.

Già un'inchiesta pubblicata nel 2013 dal Financial Times permetteva di stabilire con esattezza (non si sa quale, nonostante la fama del pur autorevole giornale) il valore dei dati personali: mediamente, nome, età, etnia e livello di istruzione di 10.000 persone diverse valevano 5.139 euro.

Ovviamente, più complessa ancora è la questione della privacy. Con milioni di dati incamerati ogni giorno, i Big Data riescono a tracciare un profilo completo di abitudini e consumi degli utenti. Da una parte la privacy, dall’altra il diritto alla concorrenza. Un vero e proprio grattacapo per l’Antitrust. Di fatto, però, se viene riconosciuto il diritto di proprietà sui propri dati, allora va da sé che il consumatore dovrebbe diventare parte integrante della negoziazione di compravendita e, quindi, in parole povere, avere diritto a un compenso. Siccome non siamo esattamente al corrente di ciò che le aziende sanno di noi, l’articolo 20.1 del nuovo Regolamento Generale per la protezione dei dati personali (GDPR) crea un nuovo diritto per gli interessati del trattamento, il c.d «diritto alla portabilità dei dati» che consente ai consumatori di ricevere i loro dati personali, forniti ad un titolare del trattamento, in modo strutturato, comunemente usato e leggibile da un elaboratore (quindi assolutamente non in formato cartaceo).

I dati, di fatto, rappresentano una valuta insolita. La maggior parte delle valute mostra una relazione transazionale individuale. Ad esempio, il valore quantificabile di un dollaro è considerato finito - può essere utilizzato solo per acquistare un articolo o un servizio alla volta, oppure una persona può fare solo un lavoro retribuito alla volta. Ma la misurazione del valore dei dati non è limitata da tali limitazioni transazionali. Infatti, la valuta dei dati mostra un effetto di rete, in cui i dati possono essere utilizzati contemporaneamente in più casi di utilizzo, aumentando così il loro valore per l' organizzazione. Questo rende i dati una valuta potente in cui investire.

Ciononostante, ci sforziamo di assegnare valore economico a un'attività immateriale come i dati. Essere in grado di attribuire valore economico ai dati è fondamentale se vogliamo che le organizzazioni gestiscano realmente i dati come asset aziendali. Tuttavia, la contabilità ha già un meccanismo per quantificare il valore di un' attività immateriale come i dati. Tuttavia, la contabilità ha già un meccanismo per quantificare il valore di un' attività immateriale come i dati. Si chiama «Avviamento». Secondo quanto espresso da William Schmarzo, Chief Technology Officer, EMC, questa potrebbe essere una buona strada da percorrere.

L'avviamento è un concetto contabile che attribuisce a un'entità un valore in aggiunta al valore delle sue attività. Il termine è stato originariamente utilizzato in sede contabile per esprimere il "valore prudenziale" intangibile ma quantificabile di un'attività in corso al di fuori dell'attivo. Da questa definizione di avviamento, potrebbe essere possibile esprimere il "valore prudenziale" intangibile ma quantificabile dei dati. La sfida consiste quindi nello sviluppare una formula per stabilire un «valore prudente».