19 aprile 2024
Aggiornato 15:00
immigrazione

Tutti i CEO contro Trump (in frasi), meno uno (Uber)

A schierarsi contro le misure anti rifugiati firmate da Donal Trump CEO come Howard Schultz di Starbuck, Brian Chesky di AirBnb e Sundar Pichai di Google. L'unico che pare non dare torto al neo presidente USA è Uber

ROMA - Le misure restrittive messe a punto dal neo presidente degli Usa Donald Trump hanno scatenato la bufera. In gioco ci sono i diritti umani, specialmente dei migranti e dei rifugiati. E di quella piccola grande fetta che l’America l’ha anche costruita, portando nel Nuovo Continente il proprio talento. Un Paese che come ha affermato il padre di Facebook Zuckerberg «non esisterebbe senza immigrati». Alle proteste, inoltre, hanno fatto seguito le prese di posizione, quelle importanti delle multinazionali, che non ci stanno all’idea di costruire muri a destra e a manca. Tranne una, forse, Uber.

La risposta di Starbucks
La prima azienda è stata Starbucks, la famosa catena di caffetterie, che assumerà 10.000 rifugiati in tutto il mondo nei prossimi cinque anni. E’ stato proprio il manager della nota catena Howard Schultz ad elevarsi contro Trump, attraverso una lettera indirizzata ai suoi dipendenti. Un’azienda, Starbucks, che è nata e cresciuta anche grazie al talento dei giovani alla ricerca della prima occupazione, molti dei quali migranti.

«Vi scrivo oggi con grande preoccupazione, il cuore pesante e una ferma promessa. Noi non rimarremo a guardare, non rimarremo in silenzio mentre l'incertezza sulle iniziative della nuova amministrazione cresce ogni giorno che passa. Ci sono più di 65 milioni di cittadini del mondo riconosciuti come rifugiati dalle Nazioni unite e noi stiamo definendo piani per assumerne 10.000 nei prossimi cinque anni nei 75 paesi del mondo dove è presente Starbucks. E inizieremo qui negli Stati Uniti, concentrandoci inizialmente su questi individui che hanno servito le truppe Usa come interpreti e personale di supporto nei diversi paesi dove il nostro esercito ha chiesto sostegno».

La risposta di AirBnb
Non si è fatta attendere neppure la risposta di AirBnb, il colosso degli affitti brevi e condivisi, il cui fondatore Brian Chesky, attraverso un post su Facebook, ha annunciato che la sua azienda offrirà alloggi gratuiti per i rifugiati e per i viaggiatori a cui è stato vietato l'ingresso negli Stati Uniti, in seguito al giro vite di Trump. AirBnb ha, poi, aperto una pagina online dove gli utenti possono offrire gratuitamente alloggi per aiutare le persone che non possono rientrare sul suolo americano.

«Non permettere l’ingresso dei rifugiati in America non è giusto. Abbiamo tre milioni di abitazioni, possiamo senza dubbio trovare un posto dove far stare le persone coinvolte».

La risposta di Google
Sarebbero quasi 200 i dipendenti Google colpiti dalle misure restrittive di Trump ad essere stati richiamati a tornare presto negli Usa. Anche se l’azienda di Mountain View non ha di fatto confermato la notizia, ha espresso la sua totale disapprovazione nei confronti dei blocchi disposti da Trump, proprio grazie a una nota mandata a Bloomberg e Wall Street dal suo CEO Sundar Pichai. Proprio quel CEO, nato in India, dove ha trascorso la sua infanzia.

«Sono sconvolto per l’impatto di questo ordine, in particolare per quanto riguarda le restrizioni imposte ai dipendenti Google e alle loro famiglie. E soprattutto per le barriere che andranno a crearsi e che ostacoleranno l’ingresso di talenti negli Stati Uniti. Noi continueremo a tenere le frontiere aperte».

La risposta di Microsoft
E non poteva essere da meno neppure lui Stya Nadella, nato in India, giunto negli Stati Uniti al termine della sua laurea in Ingegneria Elettronica e Comunicazione alla Manipal University e oggi CEO di Microsoft. Un’esperienza che ha provato sulla sua pelle, quella dell’immigrazione, ma che non può che confermare come il talento non abbia un territorio.

«Condividiamo le preoccupazione che l’impatto del decreto avrà sui nostri dipendenti dei paesi elencati, i quali sono stati negli USA legalmente e stiamo lavorando con loro per fornirgli tutta l’assistenza possibile. Come immigrato e come amministratore delegato ho sperimentato entrambi e visto l’impatto positivo che l’immigrazione ha sulla nostra società, per il paese e per il mondo. Continueremo a sostenere l’apertura, sempre».

La risposta di Uber
Diverso il punto di vista che arriva, invece, dal CEO di Uber Travis Kalanick, che si è, tra le altre cose, unito al gruppo di consulenza economica del presidente Trump insieme a personaggi come Elon Musk (CEO di Tesla) e altri. Insomma, una posizione che, da una parte difende a spada tratta i dipendenti e driver colpiti dalla misura, ma che dall’altra tende a non escludere il confronto.

«Molti dei nostri driver provengono dai paesi elencati e prendono lunghe pause per ritornare dalle loro famiglie. Queste persone ora non possono lavorare e quindi non saranno in grado di guadagnarsi da vivere e sostenere le loro famiglie. Queste persone saranno da noi compensate con un pro bono nell’arco dei prossimi 3 mesi. Capisco che molte persone internamente ed esternamente possano non essere d'accordo con questa decisione. E’ la magia di vivere in America, dove le persone sono libere di essere in disaccordo. Ma qualunque sia il vostro punto di vista sappiate che ho sempre creduto in un confronto di principio e non ho mai evitato (forse a mio danno) di lottare per ciò che è giusto».

La risposta di Apple
Si è seduto insieme ad altri al Tech Summit organizzato da Trump perchè «è meglio rimanere impegnati nella questione piuttosto che restare in panchina anche in caso di disaccordi». Insomma, un modo per controllare più da vicino l’operato del neo presidente. Di fatto, però, Tim Cook di Apple non ha mai negato di avere politiche completamente divergenti rispetto a Donald.

«Nelle mie conversazioni con i funzionari di Washington questa settimana, ho chiaramente indicato che Apple crede con convinzione all'importanza dell'immigrazione, sia nella nostra società che nel futuro della nostra nazione. Apple non esisterebbe senza immigrazione, e neppure potrebbe prosperare e innovare alla stessa maniera. Come già detto molte volte, la diversità rende il nostro team più forte.  Apple è aperta. Aperta a chiunque, a prescindere da dove proviene, dalla lingua che parla, da chi ama o chi prega. Saremo pure venuti tutti con navi differenti, ma ora siamo nella stessa barca».

La risposta di Amazon
Non poteva essere da meno Jeff Bezos, CEO e fondatore di Amazon che, tramite una lettera scritta ai propri dipendenti, ha affermato di star lavorando su una serie di iniziative per far fronte al decreto blocca immigrati di Trump, tra cui anche una serie di misure legislative. Anche se Bezos, è stato spesso accusato di essersi particolarmente avvicinato a Trump dopo la sua elezione (questo mese Amazon ha annunciato la creazione di 10mila posti di lavoro negli USA), le azioni compiute in questi giorni confermano la sua disapprovazione.

«Non sosteniamo affatto questo ordine esecutivo. Il nostro team legale sta preparando una ichiarazione di sostegno al Washington State Attorney General. Siamo una nazione di immigrati la cui cultura e punti di vista differenti ci hanno aiutato ad essere la nazione che costruisce e inventa per 240 anni. E’ un vantaggio competitivo distinto per il nostro paese e altrimenti resterebbe indebolito».