La Bolivia domenica al voto: Evo Morales favorito
La vittoria di Morales rinsalderà l'asse populista-indigenista con il Venezuela di Hugo Chavez e l'Ecuador di Rafael Correa
LA PAZ - Evo Morales è il grande favorito delle elezioni presidenziali boliviane che si svolgeranno - insieme alle politiche - domenica: per il capo di Stato uscente non si esclude una vittoria al primo turno, dato che i sondaggi lo danno fra il 52% e il 54% delle preferenze; oltre trenta punti percentuali di vantaggio sul suo principale rivale, l'ex governatore della Cochambamba Manfred Reyes.
A tre giorni dalle consultazioni - cinque milioni gli aventi diritto al voto - anche la situazione nel Paese sembra molto più calma rispetto ad appena un anno fa, quando i contrasti fra il governo centrale e i movimenti autonomisti delle province occidentali - le più prospere - fecero temere il rischio di una guerra civile: la campagna elettorale non ha fatto registrare incidenti particolari.
Da allora Morales è riuscito a far approvare un referendum di riforma costituzionale (con il 62% dei voti) ancora in attesa di ratifica parlamentare ed a resistere all'impatto della crisi finanziaria globale; anzi, nonostante le sue credenziali decisamente antiliberiste, il Presidente ha ricevuto gli elogi del Fondo Monetario Internazionale per una «politica macro-economica giudiziosa e ortodossa» di controllo della spesa pubblica.
Per sperare in un mandato senza sofferenze parlamentari e dunque far ratificare la nuova Costituzione indigenista e laica Morales deve tuttavia sperare che il suo «Movimento per il socialismo» (Mas) conquisti anche il controllo del Senato, attualmente nelle mani dell'opposizione: stando ai sondaggi, si troverebbe a soli due seggi dalla maggioranza necessaria di due terzi.
Dal punto di vista internazionale, la vittoria di Morales rinsalderà l'asse populista-indigenista con il Venezuela di Hugo Chavez e l'Ecuador di Rafael Correa (riconfermato nell'aprile scorso al primo turno); per i boliviani potrebbe significare però anche l'apertura di un inedito periodo di stabilità politica (il mandato presidenziale è di sei anni), dopo un mezzo secolo costellato di colpi di Stato.
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