12 ottobre 2025
Aggiornato 08:30
Convegno il 28 settembre a Verona

Stabilizzanti dell’umore, farmaci efficaci o strategia di marketing?

Psicofarmaci: quarta giornata veronese di informazione indipendente

VERONA - Si terrà nell’aula magna del Policlinico di Borgo Roma con inizio alle 9, organizzato dalla sede veronese dell’Oms e dalla sezione di Psichiatria e Psicologia clinica del dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica. Si parlerà del disturbo bipolare, un problema emergente: circa l’1.5% della popolazione mondiale ne soffre.

Gli psicofarmaci possono essere considerati una reale classe di farmaci o sono il prodotto di una strategia di marketing? Su questo interrogativo e altri temi legati al mondo della psichiatria si discuterà durante la quarta giornata veronese di informazione indipendente sugli psicofarmaci che si terrà al Policlinico «Rossi» di Borgo Roma lunedì 28 settembre alle 9.

Il convegno è organizzato dalla sede veronese dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla sezione di Psichiatria e psicologia clinica del dipartimento di Medicina e Sanità pubblica dell’Università di Verona; nel corso del simposio studiosi ed esperti della materia discuteranno dei risultati ottenuti dalla ricerca nelle terapie psicofarmacologiche impiegate per il trattamento del disturbo bipolare. Il convegno sarà aperto da Michele Tansella, direttore del Centro di Salute Mentale e preside della facoltà di Medicina dell’Università di Verona, Corrado Barbui e Andrea Cipriani psichiatri dello stesso centro; tra gli ospiti interverranno John Geddes dell’Università di Oxford e Peter Tyrer dell’Università di Londra.

Conosciuto anche come sindrome o psicosi maniaco depressiva, il disturbo bipolare rientra nel campo dei disturbi affettivi e comporta anormali oscillazioni tra la tristezza, con episodi di depressione o malinconia, e l’euforia la cui principale manifestazione viene clinicamente definita come mania.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, questa patologia può interessare circa l’1.5% della popolazione mondiale; la malattia non sempre è riconosciuta dai familiari di chi ne è affetto né dagli stessi medici e, di conseguenza, il paziente non riceve con prontezza le cure più adeguate.
«E’ opportuno trattare con tempestività un malato in fase maniacale, per il rischio oggettivo che si ponga in situazioni rischiose per sé o per gli altri – spiega Michele Tansella - . I principi efficaci nella fase acuta sono gli antipsicotici quali aloperidolo, clorpromazina e olanzapina, anche se il litio, farmaco stabilizzante dell’umore, rappresenta ancora la prima scelta, nonostante il rischio potenziale di alcuni effetti collaterali importanti. Riguardo ai trattamenti non farmacologici, la ricerca è ancora agli inizi. Alcuni dati incoraggianti arrivano dalla terapia interpersonale e del ritmo sociale. Questo approccio, ad ogni modo, va sempre associato ad un intervento farmacologico ed è volto a migliorare la qualità della vita e la prognosi a lungo termine, senza porsi tuttavia come trattamento alternativo ai farmaci».

Il dipartimento di Medicina e sanità pubblica dell’ateneo scaligero sta conducendo un importante studio sulla cura di questa patologia in collaborazione con il dipartimento di Psichiatria dell’Università di Oxford.
«Considerando il disagio personale e sociale associato al disturbo bipolare, il trattamento farmacologico a lungo termine è una delle principali esigenze in psichiatria oggigiorno - spiega Andrea Cipriani –. I cosiddetti «stabilizzanti dell’umore» sono farmaci volti a ridurre il numero e l’intensità delle oscillazioni del tono dell’umore, sia in senso maniacale che depressivo. Tuttavia, solo su pochissimi farmaci ci sono prove di efficacia sufficienti e, in più, questi farmaci non costituiscono una classe omogenea tra loro, come accade invece per gli antidepressivi o per le benzodiazepine. Negli ultimi anni molti antipsicotici di seconda generazione sono stati studiati come trattamento farmacologico a lungo termine del disturbo bipolare, ma i dati sono ancora molto contrastanti o tendenzialmente negativi. In tal senso, uno dei problemi è che non conosciamo ancora quale può essere il meccanismo che sta alla base della loro azione. Un’informazione indipendente sull’argomento è volta ad illustrare anche da un punto di vista metodologico le difficoltà che sono correlate agli studi con questo tipo di pazienti, ma soprattutto a rendere consapevoli gli psichiatri che lavorano nei servizi territoriali italiani del rischio che si cerchi di favorire l’uso di farmaci antipsicotici di seconda generazione come se fossero efficaci stabilizzanti dell’umore, mentre non abbiamo dati solidi a supporto di tali opzioni terapeutiche»